Il discorso che il neo segretario del partito della giustizia e dello sviluppo marocchino (Pjd), Abdelilah Benkirane, ha tenuto davanti al congresso straordinario lo scorso 30 ottobre dopo la débâcle elettorale di settembre scorso, ha di che sorprendere.

Qual è la diagnosi della sconfitta secondo il leader islamista? Non quella del complotto del deep state o dei nemici dell’islam: lo smacco elettorale dopo 10 anni di governo è soprattutto responsabilità degli islamisti stessi a causa della loro litigiosità intestina e della «rinuncia ai valori fondamentali dell’islam, come il disinteresse e l’abnegazione».

Secondo lo studioso marocchino Mohammed Tozy c’è una difficoltà oggettiva a definire i valori fondamentali islamici anche se Benkirane compone davanti ai suoi un quadro storico più largo, includendo quella del Pjd marocchino in una serie di sconfitte che ha avuto come protagonisti i fratelli musulmani egiziani, tunisini e sudanesi. Se i fratelli musulmani sono spesso riusciti a giungere al potere, non sono stati capaci di mantenerlo allargando l’area del consenso.

La matrice salafita

Secondo Tozy vi è un’incapacità a governare da parte dei movimenti islamisti derivanti dalla matrice fratelli musulmani, fondata da Hassan al Banna nel 1928. L’altra matrice, quella salafita proveniente dal wahabismo dell’Arabia Saudita (e in contrasto con quest’ultima), non ha nella sua agenda la conquista del potere e del governo: il suo obiettivo è la conversione della società e la sua reislamizzazione.

Per ottenerla i salafiti sono disposti ad allearsi con qualunque tipo di regime che permetta loro di agire liberamente. Non è un caso che in Egitto abbiano sostenuto al Sisi contro i fratelli musulmani dell’ex presidente Morsi, così come in Tunisia sono contro Ennahada. L’islam politico della matrice fratelli musulmani è dunque in crisi?

 

In verità nel mondo del radicalismo islamico tutto è molto articolato e caotico. Le trasformazioni geopolitiche e antropologiche portate dalla globalizzazione hanno un impatto consistente sugli equilibri dell’universo islamista, compresa la sua parte estrema, quella jihadista. 

Tutti i movimenti dell’islam politico hanno in comune alcune caratteristiche: preferenza per un linguaggio chiaro e semplificato utile al proselitismo, abbandono dei codici teologici tipici degli ulema tradizionali, modalità militanti mutuate dai movimenti della sinistra marxista, abitudine alla clandestinità e segretezza, utilizzo della solidarietà come mezzo di propaganda, impiego dei social media, e dell’innovazione tecnologica in generale, a fini di comunicazione.

La narrativa dell’islam politico è semplice e diretta e si potrebbe riassumere nello slogan “l’islam è la soluzione”, un motto che si ritrova dai primi movimenti fino a oggi. Nei confronti della democrazia liberale tutti i movimenti dell’islam politico hanno più o meno il medesimo atteggiamento: gli strumenti della democrazia elettiva sono considerati come il prodotto di un rapporto di forza e come lo strumento per influenzare la società.

Rigidi e malleabili

Quest’ultima non possiede una sua autonomia né può ammettere pluralismi ma va guidata secondo un modello patriarcale e tradizionale. Non sorprende dunque che, alle prese con società non omologate e in costante mutazione anche nei paesi arabi (per non parlare della Turchia), la rigidità dell’approccio dei partiti ispirati ai fratelli musulmani e del loro tipo di governance, incontrino difficoltà crescenti.

Per i salafiti il rischio è un altro: quello di dissolversi dentro le identità frammentate e molteplici in cui si immergono anche quando non diminuiscono la loro radicalità. È il caso di alcuni fenomeni salafiti e jihadisti nel Sahel.

In sintesi: i fratelli musulmani sono troppo rigidi; i salafiti troppo malleabili. I partiti che si ispirano ai fratelli musulmani hanno sempre creduto che la loro alleanza (percepita come naturale) con la parte conservatrice e tradizionalista della società li avrebbe forniti di una confortevole maggioranza.

L’unico problema era riuscire ad accedere alle elezioni. Ma la manipolazione del nazionalismo e del conservatorismo arabo non è mai stata un loro esclusivo appannaggio. In alcuni paesi, come l’Algeria o l’Egitto, sono sfidati sul medesimo terreno dal blocco militare: eserciti che rappresentavano e rappresentano tuttora una parte considerevole della società e dell’economia nazionali, abili nell’incarnare la narrazione nazionalista e modernizzatrice della società stessa, anche (strumentalmente) in chiave anti coloniale e anti occidentale.

In altri casi sono stati messi in crisi dall’alleanza antagonista dei salafiti con regimi a loro opposti, ad esempio quelli monarchici filo occidentali favorevoli al libero mercato e così via. D’altra parte la corrente salafita ha sempre giocato ambiguamente sui due registri: quello istituzionale e quello eversivo.

Troviamo salafiti sia alleati con regimi militari che sponsor dei jihadisti. Anche tra questi ultimi, come sostiene lo studioso francese Olivier Roy, vi sono forti differenze: localisti oppure globalisti, nazionalisti o internazionalisti.

Localisti contro globalisti

La globalizzazione provoca cambiamenti che permettono ogni ibridazione possibile anche per il jihad. È utile fare l’esempio più recente, quello dei Talebani, mai coinvolti in atti violenti fuori dal proprio paese: la loro agenda è solo nazionale.

Secondo Roy non esiste una continuità automatica tra «radicalizzazione religiosa, proclamazione del jihad e terrorismo internazionale», come se tra i tre stadi vi fosse un’inevitabile successione o come se, in senso opposto, ogni terrorismo internazionale dovesse produrre un jihad locale. 

Non tutti coloro che si rifanno alla sharia diventano una minaccia terrorista globale. Spesso sono state montate dalla comunità internazionale coalizioni militari sulla base di tale assunto senza ottenere nessun risultato se non quello di aggravare la situazione.

D’altronde medesimo fu il destino delle vecchie politiche contro insurrezionali messe in opera negli anni Sessanta e Settanta contro le ribellioni dell’epoca, in genere di stampo marxista, anticolonialista o antimperialista.

Quasi tutte queste crisi hanno avuto bisogno della mediazione delle superpotenze della guerra fredda o di accordi di pace negoziati successivamente (soprattutto in America Latina ma anche in Africa). Il legame tra fenomeni terroristici globali e jihad locali è più complesso di quanto si pensi.

Una certa distinzione può essere fatta tra jihad locali (come i Talebani) e mondiali (al Qaeda o Isis). Per tale ragione si negozia con i Talebani mentre ogni trattativa con i movimenti jihadisti del Sahel stenta a decollare. Il discorso riguarda lo Jnim di Iyad Ghali, un leader jihadista tuareg apparentemente disposto ad avviare colloqui con il governo del Mali. Non rientra in tale possibilità lo Stato islamico del grande Sahara che ha per vocazione il jihad globale.

Oggi ciò che spaventa di più la comunità internazionale non è il livello di estremismo immesso in una società da parte di un gruppo che si rifà alla sharia ma la sua capacità di mettere in discussione le frontiere internazionali e cioè la stabilità complessiva del sistema.

L’idea che insorti armati stabiliscano un emirato islamico è ritenuta accettabile soprattutto se mette una qualche forma di ordine in territori tribali o anarchici. Basta che non si crei un legame oscuro tra entità statale e criminalità internazionale, come nel caso dei trafficanti di migranti.

I Talebani ad esempio restano sotto osservazione per la questione oppio; lo Jnim per il tema migratorio o per i rapimenti. In Libia nessuno vuole più saperne delle milizie che si sono dimostrate delle agenzie di traffici criminali e poco più. Nel caos globale dove mancano ormai i grandi regolatori, ogni tensione locale può essere gestita senza creare altri failed states: è precisamente ciò che la comunità internazionale vorrebbe fare dopo decenni di fallimenti.

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