Abbiamo capito che i russi non hanno mai amato Mikhail Gorbaciov ma fatichiamo a farcene una ragione, perché a noi occidentali Gorby è sempre piaciuto. La cultura europea-atlantica fatica a guardare l’universo mentale russo con le lenti giuste, che sono di fabbricazione russa.

Per cui questa volta può forse valere la pena di tentare la strada del giornalismo cialtrone, quello che capisce la storia di un paese dalla testimonianza del tassista che ti porta dall’aeroporto al centro della capitale. Trent’anni dopo la sua defenestrazione, mettere insieme piccoli dettagli di cronaca dell’epoca potrebbe aiutare a capire l’impopolarità perenne di Gorbaciov presso il popolo che ha liberato.

Prima scena. La fabbrica

Nel giugno del 1990 un industriale italiano che fabbrica sofisticati robot a controllo numerico va a Mosca per una visita confindustriale. Il muro di Berlino è caduto da otto mesi e il mondo che sta al di là cambia a una velocità impressionante. L’industriale va in visita alla Krasnij Proletarij, grande azienda siderurgica alla periferia di Mosca.

La produzione è praticamente ferma. In un capannone una quindicina di operai stanno disputando una gigantesca partita a domino, posando una quantità industriale di tessere su un lamierone sei metri per quattro buttato per terra. L’industriale entra nell’ufficio del direttore generale, ammobiliato come un ufficio del catasto italiano negli anni ’30. Sulla piccola scrivania un telefono e una radio, di quelle sovietiche che hanno un solo canale sintonizzato.

Non c’è neppure una macchina per scrivere. Convenevoli. L’italiano chiede al collega russo quanto fattura la sua azienda. Il direttore generale non capisce bene la domanda, poi cerca di tradurre in lingua occidentale gli astrusi concetti contabili sovietici e, con il tono del bambino interrogato che balbetta la risposta pronto a correggerla in corsa mentre scruta lo sguardo della maestra, butta lì: «Circa venti miliardi di lire», come dire 20-25 milioni di euro odierni.

Con quattromila dipendenti. L’italiano, pieno di entusiasmo per l’ingresso del collega sovietico nella giostra del mercato occidentale, si dice interessato a comprare dalla Krasnij Proletarij delle viti per i suoi robot. Spera di fare un affare, buone viti a buon prezzo. Il direttore generale, sorride, è felice della proposta commerciale, si sente onorato, fa un sacco di cerimonie, dice: «Parliamone».

Chiedono di essere lasciati soli per abbozzare in santa pace una trattativa. Un quarto d’ora dopo l’industriale italiano esce dalla stanza sconsolato. «Non siamo riusciti a metterci d’accordo sul prezzo». Chiedeva troppo? «No, mi ha detto che non è in grado di calcolare un prezzo perché loro vendono solo a strutture statali a prezzi figurativi decisi da burocrati e che niente hanno a che fare con costi di produzione che lui non conosce nemmeno bene». Così funzionava il sistema sovietico che Gorbaciov ha smontato.

Seconda scena. Il matematico

Sempre nel 1990, ma a Budapest. L’americana Digital Equipment Corporation, numero due dell’informatica mondiale dopo l’Ibm, nomina amministratore delegato della sua nuova filiale ungherese il matematico 48enne Ferenc Bati. Il mitico fondatore e leader della Digital Ken Olsen sceglie Bati perché lo considera il massimo conoscitore mondiale dei computer Digital, in particolare dell’allora celebre Pdp11.

Una storia che oggi può sembrare romanzesca. Durante la Guerra fredda l’impero sovietico non aveva accesso alla tecnologia occidentale, non solo ai computer ma nemmeno alla componentistica. Per cui per decenni un piccolo esercito di ingegneri e matematici è stato strapagato dall’impero per procurarsi clandestinamente un computer americano, smontarlo e vedere com’era fatto (il cosiddetto reverse engineering) per poi trovare il modo di emularlo, cioè di costruirsi in casa una roba che offrisse le stesse prestazioni. Il falso Pdp11 del Patto di Varsavia aveva costi di produzione tripli rispetto all’originale.

Però quando Olsen conosce Bati, il suo nemico sconosciuto, si rende conto che conosce il Pdp11 meglio degli ingegneri della Digital. Capisce che lui, di origine svedese, e il matematico di Budapest, sono fratelli tecnologici e culturali, hanno gli stessi cromosomi. Bati oggi ha 80 anni e ne aveva 14 quando sono arrivati a Budapest i carri armati sovietici.

Suo padre era un professore d’inglese di fede liberale. «Noi siamo come voi, veniamo dalla stessa storia. Per noi il comunismo è stata una parentesi, lunga, sì, ma una parentesi». Gli ungheresi, come gli altri europei colonizzati dall’Urss, sapevano andare sulla bicicletta dell’occidente e appena gliel’hanno ridata hanno ripreso a pedalare.

Terza scena. A Roma

Roma, 13 giugno 1984, funerali del leader del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer. A rappresentare il Pcus arriva da Mosca il numero due Gorbaciov. Si sa che è giovane (54 anni, un bimbo per gli standard sovietici), che sarà presto il numero uno e che è diverso da tutti i predecessori.

I comunisti italiani già lo amano. Infatti a un certo punto, un paio d’ore prima del funerale, la folla accalcata in via delle Botteghe oscure, in fila per rendere omaggio alla salma del segretario, vede Gorbaciov uscire sul balcone del secondo piano con una troupe televisiva che lo intervista. Lo riconoscono e lo acclamano con un’ovazione infinita. Lui saluta e sorride. I comunisti italiani vanno in estasi.

Non avevano mai visto un leader sovietico sorridere e questa è già una rivoluzione, capiscono che con lui il socialismo realizzato cambierà, sarà più libero e moderno, sarà insomma, per loro che tutta questa voglia di gulag non l’hanno mai avuta, finalmente un parente di cui non vergognarsi.

Quarta scena. L’ambulante

Di nuovo a Mosca, di nuovo nel 1990. Gorbaciov è salito al vertice nel 1985 e ha cominciato a smontare il sistema. Intorno alla piazza Rossa si respira aria di libertà, ci sono comizi a ogni angolo di strada, la gente discute animatamente. Mikhail Sergeevic ha tolto il tappo.

C’è spazio per tutti, anche per il reduce dell’ospedale psichiatrico che bracca i giornalisti occidentali per raccontare la sua storia tragica: sostiene di essere stato internato perché aveva inventato il combo televisore-mangiacassette (gli anziani capiranno) ma il partito gli ha rubato il brevetto e lo ha venduto di nascosto alle multinazionali occidentali. Forse è matto, forse crede che il capitalismo sia un gioco facile: fatto sta che chiede le royalties.

C’è anche libertà economica per il venditore di souvenir e spilline. Ha la spillina con la scritta “perestroika”, quella con “glasnost” e quella con il faccione di Gorby. Quando un cliente la sceglie lui fa un’aria schifata. «Ti piace?». «Perché, a te no?». Lui scuote la testa: «Ha detto che cambiava tutto ma le bistecche non sono ancora arrivate». Lo tratta come un imbonitore, come un imbroglione.

Dai soviet agli oligarchi

Alla fine mettiamo a confronto il matematico ungherese e il venditore di spilline moscovita e proviamo a capire la differenza. Un russo che aveva 18 anni nel 1917, l’anno della rivoluzione di Lenin, nel 1989 ne aveva 90. E non è che prima, sotto lo zar, ci fosse un regime liberale.

Per i russi il comunismo non è stato una parentesi, è il mondo in cui sono cresciuti e, quando Gorbaciov ha smontato tutto, loro sulla bicicletta del sistema occidentale non c’erano andati nemmeno da piccoli. Gli mancava la grammatica elementare e non sapevano che il capitalismo non è la cornucopia (se non per pochi privilegiati) e che la strada che portava alla bistecca sarebbe stata lunga e faticosa.

Non sapevano che in occidente la bistecca è ancora un miraggio per milioni di donne e uomini. Gorbaciov ha smontato il comunismo senza indicare al suo popolo “capitalisticamente svantaggiato” un nuovo modello. Forse pensava che la mano invisibile del mercato avrebbe provveduto.

Fatto sta che pochi mesi dopo l’hanno fatto fuori e la strada l’hanno indicata Boris Eltsin e il suo delfino Vladimir Putin. Al posto di “soviet più elettrificazione” di Lenin hanno messo “oligarchi più impero”. I russi su quella bicicletta sapevano andare e adesso amano il loro dittatore, mentre continuano a pensare che quel Gorbaciov ha fatto solo danni. La storia è fatta così.

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