Nell’India di Narendra Modi è ripresa, con inusitata violenza, l’ondata di repressione e discriminazioni contro i cristiani. Uno degli ultimi episodi ha riguardato la devastazione di una scuola cattolica per otto presunte conversioni. Poi, nello stato dell’Haryana, nella chiesa del Santo Redentore di Ambala, è stata fatta in mille pezzi una statua di Gesù.

Secondo l’organizzazione non profit Persecution Relief si registra un aumento del 48 per cento degli episodi di attacchi contro i fedeli cristiani. Sono stati al centro dello scontro politico anche i conti bancari delle Missionarie della carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta.

Le suore si sono viste respingere la richiesta per il rinnovo della loro registrazione ai sensi del Foreign Contribution Regulation Act, una legge che restringe la possibilità di ricevere fondi dall’estero per le organizzazioni non governative. Sono state poi le stesse suore a chiedere, in maniera preventiva e per motivi di cautela, di bloccare le operazioni sui conti bancari in attesa di regolarizzare la loro posizione.

Il dibattito che si è generato attorno al caso delle suore di Madre Teresa ha contribuito però a evidenziare quanto il dibattito indiano sulle attività delle organizzazioni non governative, e in particolare quelle riferibili a minoranze religiose cristiane, aiuti a comprendere una dinamica indiana e globale.

Lo stato-civiltà

L’India non è infatti il solo paese che negli ultimi anni, sotto la spinta del nazionalismo religioso, ha sviluppato un sempre più forte senso identitario che si spinge fino a frammentare i diritti che dovrebbero essere garantiti agli individui sulla base della loro cittadinanza e non per la mera affiliazione religiosa.

È il fenomeno che il professore Christopher Coker, in un fortunato saggio, ha definito dello «stato-civiltà». Nella crisi dei diritti umani e dell’ordine liberale internazionale sempre più attori stanno elaborando narrazioni e teorie alternative relative al ruolo dello stato-nazione, ai suoi rapporti con gli individui e alla tutela dei diritti fondamentali.

Nello stato-civiltà l’appartenenza dell’individuo alla comunità statale non è retta dal patto di cittadinanza, ma dal “patto di affiliazione”. Questo patto può avere natura politica, come nel caso del Partito comunista cinese che sottopone al trattamento dei campi di rieducazione gli uiguri colpevoli di essere musulmani e non pienamente inquadrati nell’ideologia del partito. 

Può avere anche natura religiosa, come nel caso del rapporto fra Federazione Russa e ortodossia con cui si giustifica la discriminazione a danno di minoranze religiose e attivisti delle comunità per i diritti degli omosessuali. Il mondo di oggi sembra rivendicare la vecchia teoria huntingtoniana, anche se non necessariamente gli stati civilizzatori si scontrano fra di loro.

Offrono però diversi modelli basati su formati storici e culturali che ne determinano sempre più le politiche. L’India è solo un altro esempio della diffusione del modello dello “stato-civiltà”, in questo caso pesantemente influenzato dalla diffusione e dall’egemonia del nazionalismo hindu.

Un vecchio problema

AP Photo/Altaf Qadri

Che la situazione indiana fosse particolarmente problematica era evidente da anni. Nel 2008 il relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione e di credo, Asma Jahangir, aveva già evidenziato come le leggi indiane anti-conversioni fossero strumenti utili a offrire una legittimazione a coloro i quali fomentavano sistematicamente la violenza contro le minoranze religiose. Proprio per questo ne chiedeva con insistenza la revisione.

A oggi sono otto gli stati indiani che hanno in vigore leggi di questo tipo, altri stati le hanno approvate ma non sono ancora applicate. Mohan Baghwat, leader dell’organizzazione paramilitare induista Rss, si è detto di recente «preoccupato per le conversioni che distorcono la demografia dell’India». È per questo motivo, sostengono in tanti, che c’è bisogno di leggi anti-conversione che impediscano di “attrarre” o convertire “con forza”, ovvero anche mediante la prospettazione di castighi divini, gli indiani.

Le leggi anti-conversione indiane sono però in aperta contraddizione con lo stesso articolo 25 della Costituzione indiana che protegge la libertà dei cittadini di «professare liberamente, praticare e diffondere» la loro religione. Sono inoltre una sfida a un modello fondato sull’universalismo dei diritti che protegge la libertà della coscienza dell’individuo e la sua facoltà di scegliere se credere e a cosa credere.

Lo “stato-civiltà” non ha però spazio per la coscienza individuale. Dalla richiesta di Asma Jahangir del 2008 sono ormai passati quasi 14 anni, ma la situazione è sicuramente peggiorata. Allora si chiedeva di modificare la leggi anti-conversione, sarebbe il caso di chiederne la loro abrogazione. Del resto, come ha sottolineato Peter Machado, arcivescovo cattolico di Bangalore, lo stesso Bhimrao Ramji Ambedkar, il principale artefice della Costituzione indiana «si era convertito al buddismo senza il permesso dello stato».

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