Emergenza nell’emergenza, la dipendenza strutturale di Gaza rispetto a Israele in fatto di rifornimenti d’acqua si sta rivelando in tutta la sua gravità in questi giorni di conflitto acuto. Secondo testimonianze arrivate dalla striscia molti palestinesi avrebbero accesso ad appena mezzo litro di acqua potabile al giorno, laddove l’Organizzazione Mondiale per la Sanità raccomanda l’utilizzo di 50-100 litri d’acqua per dissetarsi e prendersi cura dell’igiene personale.

Una situazione così critica che persino il governo israeliano, deciso a portare avanti una rappresagli spietata dopo la strage di oltre 1,300 israeliani perpetrata da Hamas, nella serata di domenica ha accettato di riattivare almeno parzialmente i trasferimenti idrici all’enclave palestinese. In prima battuta rappresentanti governativi avevano promesso lo stop a acqua, benzina, elettricità, almeno fino al ritorno dei circa 150 ostaggi, ma l’esecutivo sembra in parte ricettivo alle pressioni internazionali.

L’acqua nella striscia proviene da tre diverse fonti. In ordine grandezza: una falda acquifera sotterranea, utilizzata a ritmi eccessivi e infiltrata da acqua marina. I trasferimenti idrici da parte israeliana e infine, in modo limitato, un modico di risorse provenienti da impianti di desalinizzazione di acqua marina.

Il problema è che sia gli impianti per la depurazione dell’acqua della falda che quanto rimane delle infrastrutture di desalinizzazione, danneggiate nell’ultimo conflitto nel maggio 2021, necessitano di elettricità per poter funzionare. E l’elettricità viene da Israele (la centrale elettrica nel cuore di Gaza è stata a sua volta messa fuori gioco in un recente conflitto).

Una storia antica

La regione della Palestina storica, come tanta parte del Medio Oriente, soffre da sempre di scarsità di risorse idriche: il territorio è al 60 per cento desertico e per il resto semiarido. Tanto che il risparmio d’acqua e la ricerca di soluzioni per recuperare risorse fanno parte dell’ethos sionista fin dagli albori dello stato. Ad oggi richiami della pioggia sono presenti nelle canzoni tradizionali e i TG spesso annunciano il livello del Lago di Tiberiade, il più grande bacino d’acqua dolce nel paese.

Nell’ambito del tentativo di evitare gli sprechi l’85 per cento dell’acqua delle fognature israeliane viene depurata e riutilizzata. Grazie agli impianti di desalinizzazione i sofisticati sistemi per ottimizzare l’uso delle risorse, soprattutto in agricoltura, lo stato ebraico è in grado di esportare acqua verso Egitto e Giordania.

Punta di diamante di tali sistemi è l’irrigazione a goccia, nata negli anni 60 e perfezionata in sistemi sempre più efficienti. Permette di rilasciare acqua alle piante in misura non superiore a quella necessaria e nei tempi adatti. Secondo esperti israeliani l’irrigazione a goccia limiterebbe a solo il 4 per cento il quantitativo d’acqua persa a causa dell’evaporazione, un risultato migliore del 50/60 per cento rispetto ai sistemi a inondazione o a spruzzo.

Tuttavia, secondo dirigenti di aziende nel settore, quattro quinti dell’irrigazione mondiale avviene ancora per inondazione, un metodo che comporta uno spreco significativo d’acqua. Soltanto il 4 per cento avverrebbe a goccia, complici i costi eccessivi rispetto a coltivazioni a basso profitto come soia, cotone, granoturco, canna da zucchero, riso.

La Cisgiordania

Nell’ambito di una crisi idrica a livello mondiale, dovuta a fattori come la crescita della popolazione, il cambiamento climatico, l’aumento dei consumi, le tecnologie israeliane sono spopolate nel mondo. Al punto da essere ricercate persino in paesi che non riconoscono lo stato ebraico, come il Pakistan. Tuttavia, mentre le eccellenze israeliane forniscono soluzioni in tutti gli angoli del globo, lo stato ebraico continua a non garantire ai palestinesi risorse eque. Non solo a Gaza.

Fin dalla guerra dei 6 giorni, nel 1967, Israele ha preso il controllo delle risorse idriche nei territori occupati. In Cisgiordania l’azienda pubblica israeliana “Mekorot” ha il monopolio degli approvvigionamenti e delle estrazioni, ma poi discrimina fra i residenti palestinesi e gli insediamenti israeliani in fase di distribuzione. Secondo Amnesty International, nei territori il consumo di acqua da parte degli israeliani è almeno quattro volte superiore a quello dei palestinesi.

I palestinesi “non possono perforare nuovi pozzi d'acqua, installare pompe o approfondire quelli esistenti, non hanno accesso al fiume Giordano e alle sorgenti d'acqua dolce”, si legge sul sito dell’organizzazione. Secondo Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, quasi 200 comunità palestinesi nella Cisgiordania rurale non hanno acqua corrente.

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