Il rovinoso ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che si è accompagnato al collasso dell’esercito afghano e alla conquista del paese da parte dei Talebani in tempi più rapidi rispetto a qualunque previsione (al netto degli inascoltati segnali dell’intelligence americana), non segna affatto la fine della “guerra al terrore”. E in un certo senso non sancisce nemmeno la fine della guerra a trazione americana in Afghanistan, la “forever war”. Quest’ultima, intesa come conflitto imperniato sull’occupazione militare e il dispiegamento stabile di ingenti forze sul campo, è finita già da molto tempo. Invece la guerra al terrore, intesa come complesso sistema transnazionale di operazioni militari per colpire reti terroristiche semi indipendenti ma unite da comuni linee di fanatismo ideologico e religioso, procede da oltre un decennio in modo quasi autonomo attraverso attacchi con i droni, incursioni delle forze speciali e azioni di antiterrorismo guidate da una Cia che nel tempo ha cambiato forma e natura, passando da agenzia d’intelligence a forza paramilitare orientata anche alle operazioni militari clandestine.

Negli anni di George W. Bush, quando la priorità era la guerra in Iraq, la presenza di militari americani in Afghanistan non ha mai superato le 25mila unità. È stato Bush, nel secondo mandato, a ordinare le prime azioni con i droni nel paese e anche oltre i confini. Del resto, anche il filosofo Michael Walzer, non proprio un falco, ha ricordato in un’intervista al Corriere della Sera che Donald Rumsfeld, segretario della Difesa di Bush fino al 2006, prediligeva gli interventi circoscritti e mirati di un esercito ultratecnologico alle occupazioni massicce e durature. Era il cuore della “dottrina Rumsfeld”.

Barack Obama ha ordinato un aumento delle truppe all’inizio del suo mandato, arrivando a inviare 100mila soldati sul campo nell’agosto del 2010, promettendo che una volta assolte le necessità di stabilizzare una situazione incandescente sarebbe iniziato un graduale ritiro. Così è stato, al netto di alcune correzioni in corsa. Nel 2012 le truppe americane sono scese a 77mila, nel 2013 a 46mila e nel 2014 a 16mila. A dicembre di quell’anno Obama ha dichiarato: «La nostra missione di combattimento in Afghanistan sta finendo e la guerra più lunga nella storia americana sta arrivando a una conclusione responsabile». L’anno successivo i soldati sul campo sono stati ridotti a 9.800, numero che poi è leggermente risalito per fronteggiare una recrudescenza particolarmente violenta nelle azioni dei Talebani.

L’altro lato del disimpegno

Mentre diminuiva il numero di soldati nel teatro di guerra, Obama era impegnato ad aumentare, a dismisura, le operazioni ibride di contrasto al terrorismo. Ha ordinato 563 attacchi con i droni in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia, dieci volte di più di quelli autorizzati da Bush. Soltanto in Pakistan, che è il più infido fra gli alleati americani ma pur sempre un alleato e formalmente non in uno stato di guerra, Obama ha ordinato almeno 375 attacchi, che hanno ucciso fra 2.000 e 3.500 terroristi, oltre a un numero di civili stimato fra 250 e 630.

Obama ha anche esteso il raggio di azione delle forze speciali, che hanno condotto incursioni in 138 paesi, contro i 75 “visitati” negli anni dell’amministrazione Bush. Mai dottrina del disimpegno fu più impegnativa: il presidente stava soltanto cambiando il tipo di intervento, non si stava ritirando dalla guerra al terrore iniziata dopo gli attacchi alle Torri gemelle.

Certo, il dibattito in quegli anni riguardava proprio lo spirito e di conseguenza la strategia dell’intervento. I pochi che sostenevano l’espansione di un’azione bellica strutturata sul campo finalizzata al nation building proponevano un approccio noto come counterinsurgency; i molti che invece intendevano tenere alta la guardia contro i terroristi divincolandosi gradualmente dagli impegni bellici stabili propendevano per il counterterrorism. La prima ipotesi intendeva sradicare le condizioni fondamentali che alimentavano il terrorismo, la seconda si proponeva di contrastare i suoi effetti nell’ottica della difesa della sicurezza nazionale e degli alleati. Joe Biden, da vicepresidente, ha avuto un ruolo importante nel mediare fra le posizioni, proponendo una versione potenziata della strategia antiterrorismo ribattezzata counterterrorism plus. Era un approccio a intensità più alta rispetto alle versioni più minimaliste di alcuni consiglieri obamiani, ma era pur sempre un piano decentralizzato e ibrido, l’opposto di un’occupazione massiccia a tempo indeterminato, caldeggiata invece da alcuni generali degli anni di Bush che Obama aveva tenuto o promosso in ruoli cruciali di comando.

Non a caso Biden nel teso discorso tenuto mentre i Talebani issavano la loro bandiera sul palazzo del governo di Kabul, ha citato counterinsurgency e counterterrorism come i due poli opposti del dibattito. Non è dalla settimana scorsa che gli Stati Uniti hanno deciso quale strada prendere: la repentina e traumatica caduta di Kabul ha soltanto dato l’impressione che le cose fossero precipitate improvvisamente, quando invece si sono sviluppate nel tempo.

L’epilogo

Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno mantenuto in Afghanistan un numero di soldati e forze militari largamente incompatibile con l’obiettivo del controllo diretto di un paese di 38 milioni di abitanti, grande poco più della Francia e attraversato da logiche tribali e religiose che rimangono ancora largamente indecifrabili per l’occhio occidentale. Biden è stato il protagonista, e dovrà assumersene le responsabilità, di una disastrosa esecuzione e gestione dell’ultima fase del ritiro, che è finita come sappiamo. Ma è un po’ troppo facile attribuire le colpe dell’accaduto allo scellerato accordo di Doha firmato da Donald Trump o all’inaffidabilità dell’esercito afghano, che si è squagliato di fronte all’avanzata dei Talebani.

Le scelte politiche che hanno portato a questo epilogo sono state fatte molti anni fa, quando gli Stati Uniti hanno deciso di abbandonare la guerra in Afghanistan e di intensificare, in altre forme, la guerra al terrore, che non è finita con la caduta di Kabul.


Il popolo afghano negli ultimi quaranta anni ha vissuto sofferenze inimmaginabili. Solo nel 2021 circa 550mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Sono donne e bambini a pagare il prezzo più alto. Unhcr ed Emergency sono ancora in Afghanistan per aiutarli. Ognuno può dare il proprio contributo con una donazione, bastano pochi click.
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