Il conflitto in Ucraina ha riabilitato sul piano internazionale il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, trasformatosi improvvisamente nel mediatore perfetto tra la Russia e l’occidente. Il capo di stato turco ha saputo sfruttare l’appartenenza della Turchia alla Nato e i buoni rapporti instaurati negli anni tanto con Mosca quanto con Kiev, presentandosi al mondo come l’uomo perfetto per portare la pace.

Nel suo tentativo di rimanere equidistante tra le due parti, Erdogan ha quindi preso una strada diversa rispetto al resto dei paesi della Nato, rifiutandosi persino di imporre sanzioni contro gli oligarchi russi, tra i primi contro cui si sono invece mossi gli alleati atlantici.

Questa scelta ha favorito Erdogan sul piano diplomatico e internazionale, ma non solo. Fin dall’imposizione delle prime sanzioni, gli oligarchi russi hanno trovato in Turchia un rifugio sicuro per i loro beni, con risvolti positivi per le casse del paese anatolico, fortemente provate dalle politiche monetarie imposte dal presidente.

La crisi economica

Secondo i dati dell’Istituto di statistica nazionale turco, a marzo l’inflazione ha segnato il valore più alto degli ultimi vent’anni, arrivando al 61 percento. A crescere sono stati principalmente i prezzi dell’energia e del settore dei trasporti, seguiti da quelli dei beni alimentari e degli alcolici.

Con l’aumento dell’inflazione si è quindi assistito a una riduzione del potere di acquisto dei cittadini, scesi diverse volte in piazza dall’inizio dell’anno per manifestare contro i rincari e le politiche messe in campo dal governo.

L’aumento dei prezzi è infatti coinciso con il crollo della lira, che nel 2021 ha perso il 44 percento del suo valore rispetto al dollaro a seguito della decisione della Banca centrale di tagliare i tassi di interesse dietro richiesta del presidente.

Le politiche monetarie volute da Erdogan hanno avuto come effetto positivo l’aumento delle esportazioni, che a marzo hanno segnato un incremento del 20 per cento su base annua, ma il costo delle importazioni ha continuato a lievitare.

La svalutazione della lira ha causato un nuovo record nel deficit della bilancia commerciale, che ha superato gli otto miliardi di dollari. A ciò si aggiunge anche la drastica riduzione delle riserve in valuta estera della Banca centrale turca, che a dicembre 2021 ha raggiunto il livello più basso dal 2002: soli 8,63 miliardi di dollari.

L’amnistia fiscale

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Nel tentativo di far fronte al problema, il governo ha puntato ancora una volta sulla legge di amnistia fiscale, approvata l’ultima volta nel 2019 e prorogata fino al 30 giugno 2022. La norma, voluta dal partito della Giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Erdogan, consente di poter riportare in Turchia denaro, valuta estera, oro, titoli e altri asset detenuti all’estero o di dichiararne l’esistenza nel paese senza incorrere in alcun tipo di penale e senza dover fornire informazioni sulla loro provenienza. Un dettaglio quest’ultimo che preoccupa gli esperti in reati finanziari, che vedono nell’amnistia fiscale un utile strumento per il riciclaggio di denaro sporco.

Per i sostenitori della legge, invece, la questione sarebbe del tutto irrilevante. In Turchia, il compito di contrastare il riciclaggio spetta al Financial crimes investigation board, ma il margine di azione di questa istituzione, così come quello della l’Agenzia di regolamentazione e supervisione bancaria, è stato costantemente ridotto dal governo.

L’Akp ha reso sempre più snelle le procedure burocratiche per investire nel paese, indebolendo così le autorità preposte al controllo dei beni che entrano in Turchia o dichiarati al fisco. A novembre, il paese anatolico è stato anche inserito nella lista grigia del Financial Action Task Force: secondo l’organizzazione internazionale, la Turchia non fa abbastanza per contrastare il riciclaggio il denaro e il finanziamento al terrorismo.

Gli oligarchi

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L’imposizione di sanzioni da parte dell’occidente è coincisa con la fuga degli oligarchi russi verso quei paesi che si sono rifiutati di seguire la linea tracciata dagli Usa. Tra questi rientra anche la Turchia, diventata in poco tempo un rifugio per la classe più abbiente della Federazione.

D’altronde, ad invitare gli oligarchi russi a fare affari nel paese anatolico è stato lo stesso ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, in un’intervista rilasciata a fine marzo al forum di Doha. L’importante, ha specificato il ministro, è che non venga mai meno il rispetto del diritto internazionale.

Ad agevolare il comportamento della Turchia è la mancanza di sanzioni secondarie dirette contro chi fa affari con la Russia, al momento unico destinatario delle misure restrittive imposte dell’occidente. Inoltre, considerando il ruolo diplomatico attualmente ricoperto da Ankara, è difficile immaginare che sanzioni secondarie siano imposte nel breve periodo. Questa circostanza, unita alla legge sull’amnistia, può quindi di agevolare l’afflusso dei beni detenuti dai magnati russi in Turchia.

La mancanza di controllo sulla provenienza dei beni riportati in Turchia o accumulati nel paese stesso, la possibilità di sfruttare un intermediario e il basso rischio di essere sanzionati dalle autorità di controllo rappresentano un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per gli oligarchi. Con vantaggi per la stessa Turchia, bisognosa di valuta estera.

Finta imparzialità

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L’apertura agli oligarchi mette però in dubbio l’imparzialità di Ankara. Erdogan ha più volte affermato di non voler imporre sanzioni contro la Russia per non compromettere il dialogo con Mosca, indispensabile per il raggiungimento di un accordo con Kiev, ma invitare gli oligarchi a fare affari in Turchia è ben diverso. Inoltre, resta sempre il pericolo che si arrivi all’imposizione di sanzioni secondarie nel medio-lungo periodo se il conflitto dovesse continuare.

Con consegue negative anche per le banche e le imprese turche, che vedrebbero ulteriormente compromessa la loro reputazione tra gli investitori esteri, già danneggiata dal recente declassamento.

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