Giorgia Meloni ha buon gioco ad esprimere soddisfazione dopo il vertice della Nato a Vilnius che ha dato un certo grado di rassicurazione all’Ucraina sul suo futuro ingresso, evitando però di prendere impegni a breve termine. La promessa fatta a Kiev ricorda la preghiera di Sant’Agostino, che chiedeva a Dio la castità, «ma non ora». L’Ucraina entrerà, ma non ora.

Tanto basta per far dire in coro a tutti i rappresentanti degli stati membri che l’alleanza è rafforzata e in espansione, sono archiviati i tempi in cui Emmanuel Macron parlava dell’elettroencefalogramma piatto dell’Alleanza e i nazionalisti annunciavano un suo imminente scioglimento o riduzione all’irrilevanza.

Dietro all’unanime soddisfazione dei comunicati ufficiali ci sono però problemi irrisolti e divergenze profonde su strategie e obiettivi di questa Nato, che in alcuni casi sono in armonia e in altri in contrasto con le linee di politica estera dei vari membri.

Nel caso dell’Italia, si vedono soprattutto i contrasti. Nel punto stampa di ieri Meloni ha fatto un riferimento agli impegni della Nato sul fronte meridionale, decisivo per il nostro paese per motivi ovvi, ma di vero interesse per l’area del Mediterraneo ci sono poche tracce perfino nei documenti ufficiali del summit, che di solito citano un po’ qualunque cosa per non scontentare nessuno.

Nel comunicato del vertice c’è un paragrafo sul fronte meridionale che fa più che altro riferimento alle azioni destabilizzazione della Russia e si conclude con l’impegno di «lanciare una profonda e ampia riflessione sulle minacce e le sfide emergenti» in vista del summit del prossimo anno.

Lanciare riflessioni, soprattutto quelle profonde e ampie, è di solito il preludio al nulla, e il disinteresse per il fronte meridionale è del resto coerente con il Concetto strategico della Nato dello scorso anno e con la fase storica determinata dallo spostamento dell’asse della Nato a nord-est.

I trascinatori dell’alleanza in questo momento sono i paesi attorno al confine russo, sostenuti direttamente dagli Stati Uniti, e a quello scaltro negoziatore di Erdogan non è sfuggito che di fronte alla richiesta d’ingresso della Svezia era meglio sedersi e ottenere una buona contropartita invece di mettersi ostinatamente di traverso.

Gli altri quadranti geostrategici sono scivolati in basso nella lista della priorità, e dei tre blocchi che si fronteggiano – il fronte est concentrato sulla Russia, l’anglosfera che vuole “globalizzare” la Nato e il fronte sud che teme la destabilizzazione africana – non è difficile dire qual è quello politicamente perdente.

Meloni ha investito un enorme capitale politico sul sostegno incondizionato all’Ucraina per dare prova dell’inflessibile atlantismo del suo partito (abbastanza facile) e della maggioranza di governo (più complicato), e la posizione aveva anche il vantaggio di rinsaldare la sua alleanza politica più salda in Europa, quella con i polacchi del Pis.

Ma l’Italia non può ignorare a lungo i piani strategici che guardano a sud. Dalla nascita del governo Meloni il ministero degli Esteri ha riorientato la sua attenzione sui Balcani, scenario geograficamente prossimo (e notoriamente frammentato) che però va in larga parte letto all’interno delle dinamiche della Russia, togliendo attenzione e risorse all’area mediterranea.

Quando la Nato, incalzata dall’aggressore Putin, si è rivolta a est, anche l’Italia ha rimesso in ordine le priorità contingenti della sua politica estera per non rimanere ai margini. Ma difficilmente potrà essere la posizione stabile di un paese proteso nel Mediterraneo e affacciato verso l’Africa.

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