«È spaventoso immaginare una foresta di bombe alte quindici metri e libere di esplodere, ma le macchie di peccio nero pronte ad avvampare al primo contatto con un fiammifero sono proprio questo». Lo scrive il giornalista canadese John Vaillant ne L’età del fuoco, il libro dedicato al gigantesco incendio di Fort McMurry del 2016 e a cui è stato impossibile non pensare in questi giorni, davanti alle immagini sinistramente simili di Los Angeles.

Non è certo la stessa vegetazione, quella del Canada centrale e della California, ma il concetto è lo stesso. Si tratta di città o quartieri circondati da “foreste di bombe” e costituiti essi stessi di bombe: «Oltre alle pareti in legno essiccato non c’era abitazione che non avesse dentro una riserva di combustibili o acceleranti petrolchimici (…) Senza contare i barbecue a gas, le auto, i cestini della spazzatura in plastica».

EPA

Il vento secco che dai deserti soffia verso il Pacifico può raggiungere velocità fino ai 160 chilometri orari, innesca e soprattutto alimenta incendi che si gonfiano e hanno bisogno di scaricarsi. Esiste un ciclo naturale degli incendi, tanto nella foresta boreale quanto in California: è normale che ci siano, hanno una funzione rigenerante, garantiscono la riproduzione di alcune specie. Per questo lì in mezzo non bisognerebbe abitare, in ogni caso.

Poi però a peggiorare la situazione c’è la crisi climatica, che non scatena gli incendi ma li intensifica, porta con sé venti troppo forti e suolo troppo secco. E soprattutto ci sono le case che sono bombe a loro volta, coacervi di materiali infiammabili che trasformano l’incendio in raffiche di esplosioni. E la foresta stessa da incendi così intensi ne esce annichilita, il calore sale e mantenere l’umidità che salva i tronchi sotto le cortecce diventa difficilissimo.

«nuova era degli incendi»

L’insieme di questi fattori ci porta in quella che la giornalista americana Rebecca Solnit ha definito «una nuova era degli incendi». Che è fatta dalla crisi climatica, dal fatto che gli incendi ci sono sempre stati e da come e dove costruiamo.

Per capire cos’è successo a Los Angeles c’è da interrogarsi anche su questo: sulla sua posizione geografica e conformazione urbanistica. Molte case sono costruite in aree già di per sé particolarmente esposte agli incendi, come le colline o le zone montuose, dove il bosco secco funge da “bomba”. Sono zone in cui semplicemente sarebbe meglio non costruire, perché gli incendi ci sono, che siano dolosi o meno.

EPA

Può essere il gesto involontario o volontario di un umano, un guasto a una rete elettrica, un lampo che si abbatte su un ramo secco: il punto è che ci vuole pochissimo. In passato in California si appiccavano incendi apposta per pulire e rigenerare. Interrompere il ciclo naturale degli incendi, scrive Solnit, «ha fatto in modo che questi diventassero distruttivi anziché rigeneranti».

Piccole fiamme boschive spente per proteggere le case attorno lasciano combustibile fresco per il prossimo incendio. Interrompere quel ciclo per lasciare spazio all’urbanizzazione crea le basi per incendi potentissimi.

Case come scatole infiammabili

Ma c’è dell’altro. Quelle stesse case circondate dal bosco hanno quasi sempre ampi terrazzi e giardini, spazi aperti ricchi di vegetazione secca che se non vengono gestiti adeguatamente possono diventare pane per i denti dell’incendio. Se poi non ci sono recinzioni, muri o barriere preventive, la corsa del fuoco non ha nemmeno bisogno di rallentare.

EPA

E infine ci sono le case stesse. In collina e in città, quelle andate in fumo sono quasi sempre costruite con materiali altamente combustibili come legno non massello (con basso contenuto di umidità e dunque estremamente vulnerabile) e compensato. Le case negli Stati Uniti sono spesso fabbricate così, leggere e poco costose, ma allo stesso tempo scatole infiammabili zeppe di materiali infiammabili.

«Oggi è normale sedersi o dormire su mobili fatti quasi completamente di derivati del petrolio. Sembra assurdo, ma tanta gente si prepara alla giornata vestendosi dalla testa ai piedi con materiali a base di petrolio e altamente infiammabili», scrive Vaillant ancora ne L’Età del Fuoco.

Racconta anche che nel 2005 venne effettuato un esperimento per osservare l’andamento di un incendio in due tipi di soggiorni: uno arredato con mobili e materiali moderni e l’altro con mobili e materiali più tradizionali.

Nel primo caso, nel giro di tre minuti il fuoco attecchiva sull’intero divano e in venti minuti divorava il salotto: «Il fuoco si nutre dei gas emessi dal materiale combustibile riscaldato», spiega Vaillant, e l’effetto è devastante.

Nel secondo caso invece – niente plastica, niente materiali altamente infiammabili, legno massello – dopo venti minuti si è ancora in tempo per spegnere le fiamme con una semplice secchiata d’acqua e ce ne vorranno altri venticinque perché la situazione diventi irrecuperabile.

Possiamo immaginare che molte case appartengano al secondo tipo. Possiamo immaginare anche che nei garage delle monofamiliari sia pieno di auto, moto, barbecue, magari taniche di benzina.

Ripensare il rapporto tra paesaggio e urbanistica

Tutto concorre a trasformare l’incendio in un disastro. E, con uno sguardo più ampio, crisi ambientale è tutte queste cose. È la troppa anidride carbonica nell’atmosfera, con infinite ripercussioni sul clima e sulle temperature che a loro volta intensificano alluvioni, uragani, incendi.

Ma è anche un rapporto sconsiderato fra paesaggio e urbanistica, in cui si prosciugano paludi e ci si costruisce sopra per poi stupirsi quando l’acqua (resa più alta da quel riscaldamento globale) torna a prendersele.

E si costruiscono ville dove gli incendi hanno bisogno di sfogarsi, impedendo ai piccoli fuochi di fare il loro corso e facendosi distruggere dai grandi – resi ancora più grandi sempre da quel solito riscaldamento globale, e ancora più esplosivi dal petrolio che popola case, giardini e garage sotto forma di plastica, tessuti sintetici o automobili.

© Riproduzione riservata