Da settimane il dibattito politico italiano si focalizza sulla questione migratoria. Dopo il naufragio di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 86 persone, il governo Meloni ha respinto le accuse su un mancato soccorso da parte delle autorità italiane e ha deciso di adottare nuove misure contro l’immigrazione irregolare.

Misure che prevedono oltre a una rivisitazione dei flussi anche nuovi fondi per le esternalizzazione delle frontiere in nord Africa, soprattutto in paesi come Libia, Egitto e Tunisia.

Stando agli ultimi dati del Viminale dalla piccola Repubblica tunisina partono circa il 60 per cento delle imbarcazioni che arrivano sulle coste italiane. Ma mentre il governo Meloni accusa il gruppo Wagner e gli scafisti per l’aumento delle partenze, bisogna considerare quali sono invece le reali motivazioni.

Crisi economica

Oggi la Tunisia è un paese in piena crisi economica e alimentare. Le difficoltà si sono acuite con la pandemia da Covid-19 che ha colpito soprattutto settori strategici per il paese come il turismo, creando disoccupazione nelle aree costiere da dove partono i migranti.

Nel 2020 il Pil ha avuto una flessione dell’8,6 per cento, attestando la Tunisia tra i paesi più colpiti dalla pandemia. Nel 2021 la crescita è stata solo del 4,3 per cento. Attualmente, la disoccupazione generale è oltre il 16,3 per cento, mentre quella giovanile è circa al 40 per cento. Motivo principale per cui sono i più giovani a lasciare il paese.

La guerra in Ucraina ha aumentato drasticamente i prezzi dei beni alimentari essenziali come il grano e lo zucchero. E spesso all’interno dei supermercati spiccano gli scaffali vuoti, saccheggiati da chi può permettersi di pagare un prodotto a un prezzo inflazionato di oltre il 10 per cento.

Per uscire dalla crisi il presidente tunisino Kais Saied sta cercando di ottenere un ulteriore prestito di 1,9 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale ma non è semplice, visto che da mesi si discute di un rischio default per il paese.

Deficit democratico

Alla crisi economica si somma quella politica. Dopo la rivoluzione dei gelsomini del 2011 che ha portato alla destituzione dell’allora regime di Ben Ali, il paese ha attraversato una complicata fase di transizione politica che ha portato ad anni di stallo.

Lo stallo si è trasformato in un regime autoritario nel luglio del 2021 quando il presidente Kais Saied ha deciso di congelare il parlamento e di destituire alcuni membri del governo tra cui il premier Hichem Michichi.

La mossa è stata definita “un colpo costituzionale” e nei mesi seguenti ha portato allo scioglimento dell’Assemblea popolare e del Consiglio superiore della magistratura. Venuta meno la separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario Saied ha governato per un anno e mezzo attraverso decreti presidenziali.

Nel 2022 Saied ha virato il paese verso una forma ultra presidenziale, accentrando su di sé un potere senza precedenti, dopo l’approvazione – tramite un referendum al quale hanno partecipato solo il 30 per cento degli aventi diritto di voto – della riforma costituzionale da lui varata.

La riforma limita fortemente il ruolo dei partiti e del parlamento. Un clima che ha portato a rabbia e rassegnazione tra la popolazione esplicitato nell’alto tasso di astensionismo alle urne dello scorso dicembre, dove hanno votato meno di un milioni di elettori con un’affluenza attorno all’8.8 per cento. Nel 2014 il parlamento era stato eletto con il 60 per cento dei voti, mentre nel 2019 con il 40 per cento. Numeri che spiegano bene la disillusione politica dei tunisini.

La situazione preoccupa anche il Dipartimento di stato americano che, in un comunicato diffuso dopo l’incontro tra il segretario di Stato Antony Blinken e il presidente Kais Saied, scrive: «Mentre il processo elettorale prosegue fino al 2023 ribadiamo l’importanza di adottare riforme inclusive e trasparenti, tra cui il conferimento di poteri a una legislatura eletta, l’istituzione di una Corte costituzionale e la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti i tunisini». Il comunicato della Casa Bianca si conclude anche con l’invito all’adozione di riforme per salvare l’economia del paese.

L’autoritarismo di Saied passa anche attraverso le ultime retate di arresti che hanno preso di mira giornalisti, oppositori politici e attivisti, accusati di complottare contro lo stato e di voler sovvertire il sistema. Espediente classico per azzerare le critiche nei confronti del regime.

Discriminazione razziale

«Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia. La loro presenza (di cittadini subsahariani, ndr) è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo». Sono le dichiarazioni pronunciate lo scorso 21 febbraio dal presidente Saied nei confronti della comunità subsahariana composta da circa 21mila persone.

Dopo l’attacco politico decine di migranti subsahariani hanno denunciato a Ong, associazioni del terzo settore e alla stampa episodi di violenza e razzismo subiti dai tunisini. Ora migliaia di persone si trovano in un limbo: tornare nel loro paese di origine è ancora pericoloso, ma rischia rimanere in Tunisia può diventarlo ancora di più.

L’alternativa è partire per l’Europa, così come i giovani del paese che vivono in uno stato sempre più autoritario (all’ordine del giorno ci sono limitazioni alla libertà di espressione, stampa e manifestazione) e con nessuna prospettiva economica. Se non lo si comprende sarà sempre più complicato per Meloni arginare le partenze.

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