I partiti americani spesso cambiano nel tempo. Ben poco rimane dei democratici e dei repubblicani non solo di inizio Novecento, ma anche all’inizio del XXI secolo. Sta lentamente cambiando anche l’ultimo residuo del secolo scorso, quello che legava al campo progressista la quasi totalità degli afroamericani e larga parte dei latinoamericani.

Del resto, questo spostamento era già visibile nel 2020, con la crescita significativa dei consensi per il ticket repubblicano guidato da Donald Trump in segmenti che fino a poco tempo prima erano tabù.

La storia

Ci vorrebbe troppo tempo a riassumere i motivi che hanno portato le due principali formazioni politiche a questo punto: per tentare un’estrema sintesi si può partire dall’ultimo riallineamento partitico, risalente agli anni Sessanta, quando con l’approvazione delle leggi sui diritti civili da parte dell’amministrazione di Lyndon Johnson gli afroamericani avevano cominciato a spostarsi in massa nelle fila dei dem, seguiti dai membri di altre minoranze etniche come asiatici e latinoamericani.

Dall’altro lato, invece, i repubblicani fondevano la loro vecchia ala pro-business con gli ex segregazionisti del sud, fuoriusciti dal partito democratico, diventando così un partito che traeva i suoi massimi consensi dalla classe medio-alta bianca e da parte del mondo operaio.

Oggi però questo sta cambiando, soprattutto per i democratici. Partiamo da un sondaggio del New York Times di inizio marzo sulle prossime presidenziali: tra i non-bianchi, Biden è in vantaggio su Trump con il 56 per cento contro il 44 per cento. Nel 2020 il distacco tra i due in questa fetta di votanti era di cinquanta punti. Si potrebbe pensare a un errore, ma non è così semplice.

Conservatori

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in visita nella chiesa metodista di Charleston, South Carolina, che nel 2015 fu oggetto di una sparatoria in cui furono uccise nove persone (foto EPA)

Una lunga analisi del Financial Times ha cercato di tirare i fili di questo trend, che hanno diverse spiegazioni semplici, ma difficilmente collegabili tra di loro. Se tra i bianchi l’elettorato più conservatore corrisponde a quello più anziano, tra i neri è vero il contrario, anche per la memoria viva degli anni della lotta contro la segregazione razziale e il razzismo istituzionale degli stati del sud (ma non solo).

Ciò non vuol dire che tra gli afroamericani avanti negli anni non ci fossero conservatori in numero rilevante: molti di questi hanno una visione su armi, fisco e libertà d’impresa molto simile a quella dei repubblicani, ma rimanevano fedeli ai dem.

Non soltanto per gratitudine, ma anche perché era senso comune che quel partito fosse il migliore difensore della comunità. Ed è proprio la comunità al centro di un’analisi pubblicata nel 2020 dal titolo Steadfast Democrats, volume scritto da Ismail K. White e Chryl N. Laird, entrambi ricercatori di scienze politiche.

Perché sono state proprio le reti sociali a limitare per decenni la libertà di scelta di questo elettorato non attraverso la coercizione, ma attraverso una sorta di conformismo comunitario, particolarmente forte quanto più etnicamente omogeneo.

Nonostante una narrazione prevalente, infatti, l’America è diventata sempre meno “segregata” da questo punto di vista, con più facilità di avere amicizie e contatti in gruppi etnici diversi. Così si spiega come mai soltanto nel 2012 gli afroamericani conservatori sostenessero i democratici al 75 per cento mentre oggi questo numero è sceso sotto la soglia del 50 per cento.

La strategia trumpiana

Finora tra i progressisti prevale la concezione che questo elettorato è deluso dal centrismo bideniano e che qualora si implementasse una coraggiosa politica ambientalista e si dessero maggiori fondi al welfare, questo tornerebbe a votare dem. Nulla di più sbagliato, l’anomalia era prima, non adesso.

Già negli anni della presidenza di George W. Bush i repubblicani avevano cercato di costruire una coalizione multirazziale sfruttando il maggiore conservatorismo di certe comunità che mal digerivano le prime aperture dei democratici nei confronti dei diritti Lgbtq+ così come lo spostamento a sinistra su altre tematiche.

I tempi però non erano maturi, come scrive lo storico Gary Gerstle nel suo The Rise and Fall of the Neoliberal Order. E in un primo momento è sembrato che l’ascesa del trumpismo avesse fermato questo trend. A partire dalle elezioni del 2020, invece, gli strateghi legati all’ex presidente hanno cercato di vendere il brand nazional-conservatore anche alle minoranze.

A riprova di questa strategia è l’assunzione tra i ranghi della campagna di Trump dell’ex deputato Mark Walker, un conservatore del North Carolina che era diventato critico dell’ex presidente negli ultimi anni, tanto che nell’ultima elezione dove Walker era stato candidato in North Carolina, quella per un distretto del Congresso, a ricevere l’ambito endorsement del tycoon era stato il suo avversario.

Come mai, dunque, un presidente che ha sempre premiato la lealtà anche sull’ortodossia conservatrice ha deciso di prendere nella sua stretta cerchia un suo passato critico? 

Walker, ex pastore battista, ha molto lavorato per iniziative ecumeniche con la comunità afroamericana e per quello il suo ruolo iniziale è proprio quello di recuperare quei voti che nel 2020 hanno fatto vincere stati come la Georgia ai democratici.

Un coalizione di conservatorismi multicolore, dunque, è quella che potrebbe riportare Trump alla Casa Bianca per rattoppare le perdite di altri gruppi elettorali un tempo fedelissimi ai repubblicani, come i liberi professionisti laureati come medici e avvocati, un tempo colonne della rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan all’inizio degli anni Ottanta e che ora guardano con maggiore interesse alla proposta dei dem.

La strada per la vittoria 

Basterà questo per vincere a novembre? Non è detto, ma i democratici dovranno fare i conti con una società che al di là delle appartenenze razziali vota per semplice coinvolgimento ideologico.

Da parte democratica finora le contromisure si limitano a riconquistare dei pezzi della coalizione trumpiana come i lavoratori operai, le cui buste paga sono cresciute in questo quadriennio a colpi di successi sindacali, così come l’insieme di quegli elettori repubblicani che semplicemente non può digerire Trump e tutto ciò che rappresenta alla luce dei suoi trascorsi imbarazzanti, dal punto di vista politico ma non solo.

Dopo anni nei quali si pensava che l’elettorato moderato fosse sostanzialmente ininfluente, i dati ci dicono che invece è più decisivo che mai: un sondaggio Gallup di inizio anno ha rilevato che i cittadini egualmente lontani dai due partiti sono ormai il 43 per cento, un gruppo decisamente dominante rispetto a democratici e repubblicani, entrambi fermi al 27 per cento dei consensi circa.

Anche se probabilmente non ci sarà un candidato centrista di rilievo sulla scheda elettorale a novembre (gli sforzi del misterioso gruppo politico NoLabels finora sono stati infruttuosi), il convincimento di questo pezzo d’America sarà decisivo per la vittoria presidenziale.

E in mancanza dell’entusiasmo, il fattore determinante può essere l’odio nei confronti di uno dei due candidati. Anche su questo, Trump non ha rivali. E la forte impopolarità di Biden potrebbe contare relativamente.

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