Due anni sono trascorsi dall’avvelenamento con una neurotossina dell’oppositore al regime putiniano, Aleksej Navalny, che, dopo la terapia riabilitativa in Germania, nel gennaio 2021 ha deciso coraggiosamente di ritornare in Russia. Le immagini del suo arresto immediato all’aeroporto di Mosca sono state trasmesse in tutti i media internazionali, provocando dure reazioni dei leader e delle organizzazioni occidentali nei confronti delle decisioni del Cremlino.

Da allora, Navalny ha avviato uno sciopero della fame, si è temuto per la sua salute, per poi riprendersi e continuare a sollecitare l’opposizione extra parlamentare a manifestare contro il regime.

Con le mani legate

Lo scorso marzo una nuova sentenza lo ha condannato ad altri nove anni di carcere per appropriazione indebita di donazioni versate alla sua organizzazione e frode; accuse, ritenute dai suoi sostenitori, pretestuose e motivate politicamente. Il dissidente Navalny è stato, così, trasferito nella prigione di massima sicurezza, Melekhovo, a 250 km da Mosca dove la possibilità di ricevere visite e corrispondenze dall’estero è stata ulteriormente ridotta.

La sua “Fondazione per la lotta contro la corruzione” è stata inserita nella lista degli “agenti estremisti”; sono state chiuse le sedi e i suoi collaboratori sono stati costretti a fuggire dal paese per evitare il carcere. Dall’estero Lyubov Sobol’, attivista, avvocato ed esponente del partito “Russia del futuro” di Navalny, e i collaboratori, Leonid volkov e Ivan Zhdanov, continuano incessantemente l’attività di opposizione sui social. Afferma Lyubov: «In tutte queste pressioni che le autorità esercitano attualmente su Navalny e i suoi collaboratori, possiamo vedere che Putin ha davvero paura di Navalny e di essere in competizione con lui per la presidenza della Russia».

Alternativa negata

Negli anni Navalny ha indubbiamente dimostrato di saper mobilitare migliaia di persone attraverso i social per protestare contro i risultati delle elezioni politiche del 2011, le politiche repressive del Cremlino e la recente invasione russa in Ucraina. Tuttavia, vincoli procedurali, amministrativi e legislativi non hanno mai consentito a Navalny di candidarsi alle elezioni presidenziali per competere contro il presidente Vladimir Putin.

A livello locale Navalny è riuscito a ottenere un buon risultato – 27 per cento – alle elezioni per il sindaco di Mosca del 12 settembre 2013 con lo slogan: “Cambiamo la Russia, cominciamo da Mosca”. Nelle elezioni del consiglio comunale di Mosca del settembre 2019 il lancio del cosiddetto “voto intelligente”, che chiede ai cittadini di votare per qualsiasi partito, escluso il partito di governo Russia unita, ha consentito di raggiungere un obiettivo significativo per i sostenitori di Navalny: la perdita di un terzo dei seggi del partito del potere.

Frammentazione

A livello federale la situazione politica, saldamente nelle mani del Cremlino, non ha mai consentito a Navalny di costituire un’alternativa alla figura di Putin perché il suo consenso è sempre stato stimato al di sotto del 2 per cento. Non potrebbe essere altrimenti, considerando il fatto che Navalny non è mai stato menzionato o invitato nei talk show televisivi che gli avrebbero consentito di farsi conoscere e apprezzare da chi vuole un cambiamento alla guida del Cremlino.

C’è anche un altro problema, non meno rilevante, che ha sempre limitato l’efficacia dell’opposizione extra parlamentare: la frammentazione. Molti movimenti o partiti di orientamento liberale come Jabloko, guidato da Grigorij Javlinsky, non accettano di essere coordinati da Navalny di cui non condividono alcune posizioni nazionaliste ed estremiste. Questa situazione preclude qualsiasi possibilità di allearsi per superare la soglia di sbarramento del 5 per cento della legge elettorale per le elezioni della Duma.

E così, Navalny, come un nemo propheta in patria è sempre stato il più noto oppositore di Putin all’estero, ma il più sconosciuto e, spesso, screditato in Russia.

Accuse all’occidente

Tre giorni fa Navalny ha pubblicato un lungo post sui suoi canali social nel quale accusa l’Ue, gli Usa e la Gran Bretagna di non fare abbastanza per indebolire il presidente Putin attraverso il regime delle sanzioni economiche. A dimostrazione il fatto che, per Navalny, solamente 46 dei 200 oligarchi indicati nella lista Forbes delle personalità più ricche della Russia sono stati sottoposti a sanzioni.

«Perché Aleksej Miller, il direttore del gigante Gazprom, non è stato sanzionato dall’Ue? Perché Roman Abramovich è riuscito a bypassare economicamente l’effetto delle sanzioni?», sono alcune delle domande che Navalny rivolge ai leader occidentali ai quali chiede anche di bandire dai loro territori «i russi che supportano l’offensiva militare in Ucraina per almeno vent’anni». Il monito del blogger è chiaro: «Basta demagogia dei governi, applicate seriamente le sanzioni se volete veramente colpire e indebolire il sistema putiniano».

In questi due anni è emersa un’altra questione che accomuna il caso Navalny a quello dell’ex candidata alle presidenziali dell’agosto 2020 Svetlana Tikhanovskaja in Bielorussia: l’inefficacia del sostegno occidentale alle opposizioni dei regimi di Putin e Lukashenko. Maggiore è l’appoggio politico, economico e morale fornito dai leader democratici ai dissidenti e maggiore è l’inasprimento delle leggi repressive (sanzioni, minacce e arresti) di questi regimi nei confronti degli oppositori.

Riflessioni sulle conseguenze delle azioni esterne dei governi occidentali a sostegno di iniziative di piazza o di movimenti di proteste sono quanto mai necessarie. Non possono tradursi in meri interventi estemporanei, – sulla scia emotiva delle pubbliche opinioni o per avere la coscienza a posto – ma devono essere riconsiderati e strutturati in modo tale da salvaguardare tutti coloro che stanno lottando “dall’estero o in prigione” contro i regimi autoritari. Sinora abbiamo assistito a sporadici riconoscimenti morali e materiali agli oppositori, ma il torto più grande che possiamo fargli è relegarli nell’oblio.

 

© Riproduzione riservata