«Ci hanno lanciato pietre e cercato di portarci via il raccolto. Uno dei coloni era armato», racconta Martina Stefanelli una cittadina italiana residente da anni nei Paesi Bassi e da poco rientrata dalla Cisgiordania dove è stata arrestata e deportata dalle autorità israeliane.

Martina si trovava nel villaggio di Burin, a sud di Nablus, dove è andata insieme a una settantina di attivisti per un progetto che punta a proteggere gli agricoltori palestinesi durante i mesi di ottobre e novembre, dedicati alla raccolta delle olive.

«La nostra presenza serve a garantire che gli agricoltori possano accedere ai loro campi e raccogliere le olive senza subire aggressioni», spiega Martina. È la cosiddetta «protective presence», una pratica che prende forma negli anni ’80-’90 e nasce in particolare dai movimenti pacifisti con l’obiettivo di: dissuadere violenze e intimidazioni (in questo caso quelle dei coloni), osservare e documentare abusi nonché rendere più visibile una crisi a livello internazionale.

Negli ultimi tempi, però, la situazione è particolarmente tesa con le aggressioni dei coloni che sono in costante aumento anche per via della protezione politica di cui godono. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, non soltanto li sostiene e ne condivide gli ideali – garantendo un clima di impunità  pressocché assoluta – ma li ha anche armati fino ai denti. «Gli attacchi sono quasi quotidiani: gli ulivi vengono bruciati o sradicati, le olive rubate di notte, gli agricoltori aggrediti», racconta Stefanelli.

Spesso i coloni sono minorenni perché godono di maggiore protezione giudiziaria. Con arresti in minore frequenza, processi più garantisti, pene ridotte e misure alternative, dato che sono soggetti alla legge civile israeliana e non ai tribunali militari.

La storia

Il 16 ottobre, Stefanelli e il gruppo di attivisti erano in Cisgiordania da circa quattro giorni. La mattina presto si sono recati in uno dei campi agricoli di Ahmed (nome di fantasia per motivi di sicurezza) l’agricoltore palestinese a cui erano andati a fornire protezione. Dopo pochi minuti il gruppo è stato avvicinato da alcuni coloni provenienti dagli insediamenti vicini. «Hanno iniziato ad urlarci contro e ci hanno lanciato anche delle pietre. Alcuni di loro hanno anche provato a portarci via il raccolto. Uno era armato», racconta Stefanelli.

I militari israeliani sono intervenuti poco dopo e hanno detto ai volontari – quando già erano andati via dal campo – che si trovavano in una zona militare. «Hanno esteso la zona militare anche alla casa privata dell’agricoltore, cosa che non dovrebbe accadere e non ci hanno mai fatto andare via», spiega Stefanelli. Dichiarare un’area “zona militare chiusa”, è una misura che viene spesso impiegata per impedire ai palestinesi l’accesso alle loro terre nei momenti del raccolto.

Gli attivisti hanno rifiutato di identificarsi con i militari, sostenendo che non ne avessero diritto, ma la polizia ha poi richiesto i documenti e li ha trasferiti alla stazione di Ariel. Da lì, sono rimasti per ore senza notizie, in una stanza vuota, senza telefoni per contattare gli avvocati. A diverse persone, tra cui alcuni anziani, le forze di sicurezza hanno anche negato le medicine.

In un secondo momento gli attivisti sono stati caricati su un autobus e mandati verso il valico di King Hussein Bridge con la Giordania. Poi la marcia indietro senza alcuna spiegazione. «Alcuni di noi sono stati accusati di terrorismo e interrogati per ore».

In seguito, gli attivisti sono stati condotti nel carcere di Giv’on, dove sono stati sottoposti a intimidazioni e violenze psicologiche. «Le celle erano sporche e infestate da scarafaggi. Ci filmavano e ci parlavano in ebraico per non farci capire», spiega Stefanelli. Una denuncia non nuova, dato che anche gli attivisti della Global Sumud Flotilla hanno raccontato di maltrattamenti simili e violenze psicologiche continue per mano dei militari dell’Idf.

«Noi siamo stati detenuti per pochi giorni. I palestinesi affrontano tutto questo ogni giorno, da anni», racconta l’attivista italiana. E infatti anche gli agricoltori palestinesi sono stati arrestati e incarcerati subendo un trattamento molto più violento. 

Dopo alcuni giorni, il gruppo è stato rilasciato e deportato. A Stefanelli è stato dato un divieto di ingresso così da non poter più entrare. L’attivista racconta di essere riuscita a contattare l’ambasciata italiana a Tel Aviv prima che le venisse sequestrato il telefono e la Farnesina si è poi messa in contatto con la sua famiglia.

La storia raccontata da Stefanelli non è un caso. «Le violenze dei coloni sono aumentate in modo esponenziale. Quest’anno, ogni giorno ci sono attacchi ai campi. Siamo stati i primi volontari internazionali a essere deportati: è un segnale della volontà di criminalizzare la solidarietà e il lavoro umanitario», spiega.

Nell’ultima settimana altri volontari stavano aiutando agricoltori palestinesi nella raccolta degli ulivi in un altro villaggio della Cisgiordania. Anche lì sono intervenuti coloni e militari. Un drone ha colpito uno dei volontari, ferendolo e facendolo cadere a terra. In un primo momento l’Idf ha dichiarato pubblicamente che gli attivisti hanno lanciato pietre contro il drone provocandone la caduta. Ma i video e le immagini della scena hanno smentito la ricostruzione costringendo l’esercito israeliano a una rettifica: «Il drone non è stato abbattuto a causa del lancio di pietre. L'incidente è sotto inchiesta». 

«La risposta precedente si basava sui primi resoconti e sui filmati ricevuti, che saranno inclusi nell'indagine interna dell'Idf sulla questione», aggiunge l’esercito secondo cui si è trattato di un «incidente eccezionale che ha comportato una condotta non professionale e che sarà oggetto di indagine». L’ennesima indagine senza colpevoli.

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