La rabbia contro i governi autoritari spinge milioni di persone nelle strade per chiedere democrazia e diritti. Ma le proteste senza leader possono davvero scalfire il potere degli autocrati? Di piazza e regime si parla nel nuovo numero di Scenari, l’inserto settimanale geopolitico di Domani, con gli approfondimenti inediti di Mattia Ferraresi, Youssef Hassan Holgado, Alice Dominese e tanti altri, e le mappe a cura di Daniele Dapiaggi di Fase2studio Appears. Abbonati per leggerlo online e sulla app di Domani, o compra una copia in edicola. Iscriviti alla newsletter per restare aggiornato su tutte le prossime uscite.

Cosa c’è nel nuovo numero

Secondo Mattia Ferraresi, se da un lato le proteste degli ultimi vent’anni sono cresciute a dismisura, dall’altro hanno perso progressivamente la capacità di influenzare le decisioni nelle democrazie, e tanto più quella di rovesciare i regimi autoritari: è l’effetto paradossale di una piazza globale che ha fin troppi mezzi per far sentire la propria voce – a partire dall’accresciuta capacità di mobilitazione attraverso i social e altri strumenti digitali – ma che proprio per questo si illude che non ci sia bisogno di una fase “politica”.

Luca Sebastiani fa una panoramica sulle grandi manifestazioni di piazza che si sono susseguite dal Novecento a oggi in tutto il mondo, radunando migliaia e a volte milioni di persone: dalle marce di Gandhi al discorso di Martin Luther King, dal Bloody Sunday nordirlandese alle primavere arabe, fino alle odierne in Cina e in Iran. Il fenomeno delle rivolte si è trasformato nel tempo arrivando fino a noi, ma, sostiene Sebastiani, pur avendo cambiato forma la sostanza spesso non cambia, così come le difficoltà nel raggiungere i risultati sperati.

Il vicedirettore di Foreign Policy James Palmer si concentra poi sulla Cina dove, nelle ultime settimane, le restrizioni anti Covid sono state il catalizzatore della più grande ondata di proteste nel paese dal 1989. La miccia che ha scatenato le mobilitazioni riguarda un incendio scoppiato in un appartamento di Urumqi, nello stato dello Xinjiang a maggioranza uigura, nel quale hanno perso la vita almeno una decina di persone. Le misure di controllo legate al Covid-19 hanno reso difficoltosa l’uscita dei condomini e ritardato i soccorsi, ma gli studenti sono scesi in piazza anche contro lo strapotere di Xi. La speranza dei manifestanti è che l’incapacità di gestire la crisi alimenti l’opposizione al presidente.

Fausto Della Porta ha intervistato Zhou Fengsuo, leader del movimento di piazza Tiananmen del 1989, che oggi vive negli Stati Uniti. Secondo Fengsuo nelle piazze cinesi è in atto «una rivoluzione che sta cambiando il modo di pensare delle persone». Internet è una formidabile palestra di dissenso contro il regime e «ora tutto può succedere».

L’analista Vincenzo Poti assume invece una linea meno radicale, evidenziando come le recenti proteste infiammate dai network studenteschi non hanno riguardato la natura dello stato cinese né le fondamenta del contratto sociale, bensì l’attuale gestione da parte della leadership in carica di un momento di crisi socioeconomica, e quindi questioni contingenti. Il regime da parte sua ha risposto con tattiche già note, ristabilendo il suo schiacciante potere. Per il popolo cinese, quindi, il “mandato dal cielo” di Xi Jinping non è ancora giunto alla fine.

Yomiuri

Youssef Hossan Halgado sposta poi lo sguardo sull’Iran – un altro paese infiammato negli ultimi mesi da violente proteste dopo la morte il 16 settembre scorso di Mahsa Amini –, intervistando Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, scrittore dissidente iraniano naturalizzato olandese, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Kader Abdolah. Per Abdolah in Iran «sta accadendo qualcosa di bellissimo e tragico allo stesso tempo, ma il fatto che gli ayatollah non abbiano un interlocutore è il tallone d’Achille di queste proteste».

Legandosi al tema della dissidenza, Alice Dominese fa luce sugli attivisti, giornalisti, oppositori politici e disertori che cercano di lasciare la Russia per sfuggire alla repressione dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Il flusso si concentra tra Europa e Asia centrale, ma l’assenza di una politica europea comune di accoglienza, le restrizioni in vigore e le difficoltà economiche rendono complicata la vita degli esuli. Ma, spiega Dominese, organizzazioni non governative e comunità nate su iniziativa degli oppositori di Putin che sono riusciti a stabilirsi all’estero sono diventate tra i principali luoghi di rifugio per i dissidenti.

Romane Dideberg ci porta poi in Africa, soffermandosi sul perché né la Francia, né l’Onu, né la Comunità dell'Africa orientale (Eac) riusciranno a sanare le ferite del Congo: la guerra in corso tra la Repubblica democratica e il Ruanda si è infatti intensificata nella regione del Kivu, nel nordest del paese, ma qualsiasi strategia che non inizi a contemplare le dimensioni geopolitiche del conflitto è destinata ancora una volta al fallimento. Il caos economico e di integrazione delle province rimane per ora ancora fuori dalle strategie dei già citati attori internazionali.

Viene infine presentato un estratto dal nuovo libro di Richard Overy, Sangue e rovine. La Grande guerra imperiale.1931-1945, appena pubblicato per Einaudi. La visione convenzionale della guerra considera Hitler, Mussolini e l’esercito giapponese le cause della crisi piuttosto che i suoi effetti ma, per Overy, «non si può dare un senso ragionato alle origini, all’andamento e alle conseguenze della guerra se non si comprendono le più ampie forze storiche che hanno generato le instabilità che hanno infine spinto gli stati dell’Asse a programmi reazionari di conquiste, poi falliti».

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