Mai, dall’armistizio del 1953, un razzo era caduto così vicino alle coste della Corea del Sud. A meno di 60 chilometri dalla città di Sokcho, nel nordest del paese, uno dei 23 missili balistici lanciati da Pyongyang è affondato in un tratto di mare appena fuori dalle acque territoriali di Seul.

I fatti

Gli attacchi, partiti all’alba, sono proseguiti per circa sette ore. Accompagnati e succeduti da un centinaio di colpi di artiglieria, sparati nel primo pomeriggio dalla provincia di Kangwon e finiti nel Mare Orientale: i proiettili hanno raggiunto la zona demilitarizzata, il “cuscinetto” istituito nel settembre 2018 per placare le tensioni tra i due paesi.

La sequenza di lanci ravvicinati, senza precedenti secondo le autorità di Seul, ha fatto attivare le sirene antiaeree nella piccola isola di Ulleung, 120 chilometri a est delle coste sudcoreane, con gli abitanti invitati dalla tv nazionale a evacuare nei rifugi sotterranei. In tempi rapidi il governo sudcoreano ha convocato una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza nazionale, in risposta a quello che il presidente Yoon Suk-yeol ha giudicato «un atto di invasione». Un affronto condotto, tra l’altro, nei sette giorni di lutto nazionale proclamati domenica, dopo la morte di 153 giovani durante i festeggiamenti di Halloween, nella capitale. 

Alle parole del presidente è seguita un’immediata reazione sul campo: gli aerei da guerra di Seul hanno lanciato tre missili aria-terra di precisione nelle acque a nord del confine marittimo intercoreano. Il Joint chiefs of staff, che riunisce i vertici delle forze armate, ha fatto sapere che i militari sudcoreani «non possono tollerare l'atto provocatorio della Corea del Nord e risponderanno severamente ad esso in stretta collaborazione con gli Stati Uniti». Una collaborazione, ravvivata e intensificata negli ultimi mesi, che per Pyongyang costituisce il vero casus belli. Le esercitazioni militari in corso tra i due alleati sono giudicate «aggressive e provocatorie» dal Partito dei lavoratori, le cui volontà ed esternazioni rispecchiano in buona sostanza quelle del leader supremo Kim Jong-un

Il contesto

Lunedì 31 ottobre Stati Uniti e Corea del Sud hanno intrapreso una missione militare comune, battezzata Vigilant Storm: la più importante esercitazione aeree militare congiunta degli ultimi cinque anni, con centinaia di jet da guerra impegnati in attacchi simulati fino al 4 novembre. Una manovra intesa a rafforzare la deterrenza nei confronti del Nord, su cui da tempo ricadono i sospetti di intelligence e vertici militari circa la possibilità di un nuovo test nucleare. Il settimo della sua storia.

Pyongyang ha più volte ribadito che manovre militari simili a quelle in corso sono considerate «prove di invasione». Negli ultimi mesi la collaborazione tra Seul e Washington si è notevolmente rafforzata. In occasione di una visita ufficiale sulla linea di confine, il 29 settembre scorso, Kamala Harris è arrivata a richiamare il «sacrificio condiviso» di soldati coreani e americani morti nella guerra del 1950-53. Nel progressivo logorio dei rapporti diplomatici tra Nord e Sud, l’entità di queste ultime dimostrazioni militari e la reazione suscitata contribuiscono ulteriormente a inclinare il piano nella direzione di uno scontro armato.

E i timori dell’escalation non sono circoscritti alla penisola, ma si estendono ai diversi paesi legati alle due coree per prossimità geografica e/o di interessi. Dagli Stati Uniti, direttamente coinvolti nelle scelte militari di Seul, al Giappone, già sorvolato a ottobre dai missili balistici nordcoreani. Alla Russia, che secondo diverse fonti di intelligence occidentali, da Pyongyang importa armi indispensabili per proseguire il conflitto in Ucraina. Rimasto finora pressoché silente sulla questione, il Cremlino mostra un accenno di preoccupazione attraverso le parole del portavoce Dmitry Peskov: «Tutte le parti devono evitare passi che potrebbero provocare una crescita di tensione». Preoccupazione, questa volta, condivisa anche dall’Occidente.

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