La nuova entità “rieducherà” l’algoritmo di TikTok sui dati degli utenti statunitensi e Oracle sovrintenderà alla conservazione dei dati degli americani nei suoi cloud. Alla joint venture spetterà inoltre la moderazione dei contenuti per gli utenti Usa. Il 19.9 per cento è ancora in mano cinese. Sullo sfondo dell’accordo le relazioni tra gli Usa e il Dragone
L’ufficialità è arrivata con una nota dell’amministratore delegato Chew Shou Zi: l’unità statunitense di TikTok passa, a partire dal 22 gennaio 2026, dalla cinese ByteDance agli americani. Nella joint venture che ne assumerà il controllo il 50 per cento delle quote fanno capo a un consorzio guidato da Oracle dell’amico di Donald Trump, Larry Ellison, più la società d’investimento Usa Silver Lake e quella emiratina MGX.
Il 19,9 per cento rimarrà nelle mani di ByteDance e il 30 per cento di «affiliati di alcuni attuali investitori di ByteDance». Insomma se il presidente Usa canta vittoria, perché ha salvato il social sul quale ha fatto campagna elettorale dalla legge del suo predecessore che ne minacciava la chiusura in mancanza della cessione di oltre l’80 per cento della proprietà, a quanto pare i cinesi, usciti dalla porta, rientrano dalla finestra. Infatti di ByteDance non è noto l’azionariato e, meno che mai, gli “affiliati” citati nell’accordo, ai quali sarà permesso di avere circa un terzo della nuova società.
Cosa cambia
La nuova entità “rieducherà” l’algoritmo di TikTok sui dati degli utenti statunitensi e Oracle sovrintenderà alla conservazione dei dati degli americani nei suoi cloud. Alla joint venture spetterà inoltre la moderazione dei contenuti per gli utenti Usa. Tuttavia, il memo di Chew suggerisce che l’entità globale di TikTok controllata da ByteDance continuerà a gestire l’e‑commerce, la pubblicità e il marketing sulla nuova piattaforma statunitense (11 miliardi di dollari di ricavi nel 2025).
Sul piano economico-politico, la soluzione evita il bando nazionale che avrebbe privato 170 milioni di utenti americani della piattaforma. L’accordo su TikTok, negoziato ai massimi livelli, è inoltre parte dei patti economico-commerciali che hanno permesso di arrivare, con il faccia a faccia tra Trump e Xi Jinping in Corea del Sud del 30 ottobre scorso, a una tregua e a una distensione delle relazioni bilaterali Cina-Stati Uniti. Qualcuno sicuramente sosterrà che la spartizione di TikTok riflette la nuova divisione dell’influenza globale tra Cina e Stati Uniti, il cosiddetto G2.
Tuttavia le tensioni covano come il fuoco sotto la cenere. Proprio mentre arrivava la fumata bianca su TikTok infatti Washington ha rafforzato la possibilità di limitare l’accesso cinese a tecnologie sensibili, inserendo nel National Defence Authorisation Act (NDAA) misure che estendono i controlli sulle esportazioni e circoscrivono gli investimenti outbound in settori critici come semiconduttori, quantum computing e biotecnologie.
Tra le novità ci sono meccanismi per identificare «aziende di preoccupazione» nel campo biotech escludendole dai contratti federali, oltre a norme che codificano restrizioni già praticate dal Tesoro su trasferimenti di capitale e know‑how. L’intento dichiarato è proteggere capacità strategiche e impedire che tecnologie a doppio impiego finiscano in applicazioni militari o di sorveglianza.
In pratica, però, continueranno a produrre l’effetto boomerang osservato negli ultimi anni, perché la Cina sta accelerando investimenti pubblici e privati nella ricerca interna, sviluppando catene di approvvigionamento alternative e rafforzando la produzione nazionale di chip, sempre più avanzati.
Inoltre, limiti troppo rigidi rischierebbero di interrompere collaborazioni scientifiche produttive, penalizzando aziende occidentali che operano in una economia integrata col resto del globo come quella cinese. Con l’incarico di monitorare l’influenza economica e tecnologica di Pechino sono stato previsti anche 20 nuovi funzionari del dipartimento di Stato, con mandato quinquennale.
La lobby anti Cina
Il passaggio di tanti provvedimenti anti-Cina nel NDAA è un successo personale per John Moolenaar, il deputato repubblicano a capo della commissione speciale della Camera sul Partito comunista cinese che porta avanti un’azione di lobbying incessante contro Pechino.
Nello stesso giorno, tra le proteste di Pechino è stato varato un pacchetto di armamenti per Taiwan, approvato dal Dipartimento di Stato, del valore di oltre 11 miliardi di dollari, incentrato su sistemi mobili e capacità asimmetriche pensate per aumentare il costo di un’eventuale aggressione: lanciarazzi ad alta mobilità, obici semoventi, missili anticarro Javelin, droni tattici, software per missioni e kit di aggiornamento per sistemi anti‑nave.
Questa dotazione riflette la strategia del “porcospino” che - in perfetta continuità con l’amministrazione Biden - privilegia armi economiche, facili da diffondere e difficili da neutralizzare rispetto a piattaforme pesanti e concentrate. L’obiettivo (non dichiarato) di Washington è rafforzare la deterrenza senza impegnare direttamente forze statunitensi in un eventuale conflitto, spingendo nello stesso tempo Taipei ad acquistare sempre più armamenti Usa.
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