Donald Trump ha inviato dalle basi della California meridionale a Los Angeles 700 marines, in aggiunta ai 2.000 soldati della guardia nazionale, e ben prima che fossero effettivamente operativi in una metropoli le cui dimensioni rendono questi numeri estremamente piccoli, sosteneva che la fragile tregua nelle guerriglia urbana degli ultimi giorni è merito del dispiegamento di forze militari.

«Se non avessi mandato le truppe a Los Angeles nelle ultime tre notti, quella città un tempo bellissima sarebbe rasa al suolo ora, così come sono bruciate 25mila case in città a causa di un governatore e una sindaca incompetenti», ha scritto il presidente, accusando anche gli avversari politici della California di avere complicato e ritardato i processi burocratici per la ricostruzione dopo gli incendi dei mesi scorsi, mentre lo stato federale procede spedito.

Parlando con i giornalisti nello Studio Ovale, il presidente non ha escluso di invocare l’Insurrection Act per rispondere alle proteste in corso a Los Angeles, cosa che allargherebbe a dismisura il perimetro dei suoi poteri, e ha detto che reagirà «con forza» se ci saranno disordini sabato prossimo alla manifestazione a Washington per l’anniversario dei 250 anni dell’esercito americano (secondo Politico l’amministrazione si sta preparando anche a inviare 9.000 migranti a Guantanamo e le deportazioni potrebbe iniziare già oggi).

In tutta risposta il governatore Gavin Newsom – che ha smentito il presidente sul fatto che ci si stata una telefonata tra loro – ha minacciato di sporgere un’altra denuncia contro il governo federale, focalizzata sulla mobilitazione di forze dell’esercito regolare. La prima azione legale era arrivata perché il presidente aveva mandato la Guardia nazionale californiana senza chiedere il permesso del governatore.

Lo scontro retorico fra Trump e Newsom è già da giorni ai massimi livelli. Il presidente ha minacciato di farlo arrestare, il governatore lo ha sfidato sul terreno della provocazione. «Venite a prendermi», ha detto, continuando a innalzare il livello dello scontro, e continuamente tira fuori il 6 gennaio, il giorno dell’assalto in cui davvero ci sarebbe stato bisogno della Guardia nazionale, che non è mai stata attivata. Quelle di Trump sono «le parole di un autocrate», ha spiegato il governatore: «Che agisca oppure no, il terrore che genera è reale, ed è un momento grave, molto grave».

L’avversario

Sul campo la situazione è ancora incandescente, anche se ieri la raffica di scontri fra polizia e manifestanti a colpi di pietre, barricate, auto incendiate, fuochi d’artificio usati come bombe e, dall’altra parte, la repressione violenta con proiettili di gomma (sparati anche sui giornalisti) e arresti a tappeto, ha avuto un provvisorio rallentamento.

Gli scontri sono iniziati venerdì scorso in risposta a una serie di raid degli agenti dell’Ice – la polizia migratoria – su alcune aziende di Los Angeles «sospettate di impiegare immigrati illegali». La Casa Bianca non ha dichiarato quante persone sono state fermate in queste retate, ma secondo diverse ricostruzioni dei media basate su fonti dell’amministrazione, alcune di queste sono state già rimpatriate.

Con l’aperto dispiegamento dell’esercito come ulteriore risposta alle proteste per le strade, Trump sta compiendo ciò che non è riuscito a fare nel primo mandato, quando gli stessi vertici dell’amministrazione sulla sicurezza hanno arginato gli eccessi belligeranti del presidente sui manifestanti, e sta trovando in Newsom un avversario agguerrito e in cerca di un ruolo di primo piano nel contrasto a Trump.

Il problema è che la guerriglia su cui soffia Trump rischia di essere un enorme e violento spot promozionale della Casa Bianca, non un moto di protesta che esalta i suoi critici. I consensi di Trump sono calati dal suo insediamento, ma l’opinione degli americani è favorevole ai programmi di rimpatrio dei clandestini. Un sondaggio della Cbs mostra che il 54 per cento degli americani è d’accordo sulle deportazioni e il consenso arriva attorno al 90 per cento se si considerano solo i rimpatri di chi ha commesso reati violenti.

Il sostegno per il Partito repubblicano supera ampiamente quello dei democratici per quanto riguarda le politiche su crimine e immigrazione, ed è in particolare la fascia economicamente più fragile – la working class – a mostrare una grande sensibilità su questi temi. Questo Newsom lo sa benissimo, e infatti giusto qualche mese fa invocava il rifinanziamento della Guardia nazionale per le operazioni di controllo al confine con il Messico, dove entrano clandestini e fentanyl, cose che non contribuiscono a risollevare i sondaggi dei democratici.

Guerra di immagini

I video delle brutali repressioni dell’esercito nelle strade di Los Angeles non migliorano la reputazione di chi è al governo, ma queste si sovrappongono alle immagini dei lanci di pietre di manifestanti mascherati, alla vandalizzazione dei quartieri, alle auto bruciate, alle bandiere del Messico sventolate mentre quelle degli Stati Uniti vengono date alle fiamme. Non sono scene su cui la sinistra può pensare oggi di ricostruire la sua forza politica.

Scrive il politologo Ruy Teixeira, esperto delle dinamiche elettorali del mondo democratico: «Può darsi che ci sia un universo nel quale ha senso per i democratici, già gravati da una pessima immagine sul crimine e l’immigrazione, attaccare Trump e la Guardia nazionale invece di prendersela con i manifestanti contro i raid anti-clandestini. Tuttavia, non è questo l’universo in cui viviamo oggi».

Del resto, nei non molti contesti internazionali nei quali i democratici vincono le elezioni e governano lo fanno proponendo un’agenda restrittiva sull’immigrazione.

Il conservatore Wall Street Jorunal ha scritto qualcosa di simile in modo molto più diretto, domandandosi retoricamente se i democratici impareranno mai la lezione del crimini e dell’immigrazione.

«Il caos nelle strade aumenterà il sostegno del pubblico per un’agenda sempre più estrema sull’immigrazione». Aumentare il livello dello scontro nelle strade di Los Angeles è per il momento un buon investimento politico per la Casa Bianca.

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