Dopo il devastante terremoto del 6 febbraio che ha provocato migliaia di vittime anche per l’inadeguatezza anti sismica della maggioranza degli edifici coinvolti, la società di sondaggi Metropoll vedeva il 3 marzo ancora in testa alle intenzioni di voto la maggioranza al potere da vent’anni nel paese della Mezzaluna sul Bosforo, l’Akp e gli alleati nazionalisti dell’Mhp, gli eredi in doppiopetto dei Lupi Grigi di Alì Agca, l’attentatore di papa Wojtyla.

Come se non bastasse ad aiutare l’esecutivo è arrivato un colpo di scena: la coalizione composta da sei partiti che in Turchia si oppone al presidente Recep Tayyip Erdogan, 69 anni, si è spaccata sul nome del candidato da opporre al presidente in carica.

La segretaria dell’Iyi, Meral Aksener, detta la “lady di ferro”, ha annunciato l’uscita dai ranghi. Ora il partito nazionalista Iyi, che i sondaggi danno al 12 per cento, correrà da solo nelle elezioni previste per il 14 maggio e lo scenario volge al bello per Erdogan che potrebbe essere rieletto al terzo mandato.

Un calciatore mancato

Cresciuto nel quartiere di Kasimpasa fuori dalle rotte turistiche di chi visita Istanbul, Tayyip Erdogan da giovane tenta di diventare un calciatore semiprofessionista senza successo. A frenarlo è l’opposizione del padre.

A quel punto Erdogan entra in politica nel movimento islamista di Necmettin Erbakan che viene nominato premier. In seguito a un comunicato dei militari letto da un generale in tv e apparso sul sito dell’esercito, custode all’epoca della laicità del paese, nel 1997 viene spodestato da un “golpe bianco” e si dimette dalla carica di primo ministro per evitare guai peggiori.

Erdogan, che ha sempre considerato Erbakan come il suo maestro, medita la rivincita contro i generali secolaristi che in futuro verranno imprigionati o costretti alle dimissioni. Nel 1991 entra nel parlamento e successivamente diventa sindaco di Istanbul, dove dà prova di pragmatismo.

L’ascesa al potere

Nel 1998 Erdogan viene arrestato dai militari per aver declamato in pubblico dei versi che recitano: «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette». Sempre in quel periodo Erdogan dice alla stampa che la democrazia è come un taxi, si sale, si paga la corsa e poi una volta giunti a destinazione si scende.

Uscito dal carcere Erdogan fonda l’Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, formazione di radici islamiche vicino ai Fratelli musulmani, conservatore nei costumi e liberista in economia, che apre le porte del potere ai laboriosi turchi “neri” anatolici, da alcuni studiosi chiamati “calvinisti islamici”, emarginando quelli “bianchi” cosmopoliti di Istanbul e Smirne.

Nel 2002, anche grazie a una crisi bancaria e alle incapacità del governo di gestire la ricostruzione in seguito a un terremoto, vince le elezioni e diventa premier. Nel 2014 viene eletto presidente sostituendo Abdullah Gul, suo compagno di partito.

Nel 2013 affronta le proteste giovanili di Gezi Park (il Sessantotto turco) in difesa del verde pubblico e contro la speculazione edilizia usando il pugno duro della repressione. Nel frattempo, sentendosi minacciato dalla leadership di Selahatim Demirtas, un avvocato curdo, oggi in carcere, che è riuscito a superare lo sbarramento per l’Hdp della soglia minima del 10 per cento per accedere al parlamento, rilancia la lotta al Pkk nell’est del paese.

L’araba fenice

Nella lotta contro i militari difensori della laicità voluta dal fondatore della Turchia moderna, Kemal Ataturk, Erdogan successivamente stringe legami con l’imam Fethullah Gulen, suo compagno di strada fino a quando i due litigano e si dividono in seguito a un’indagine tipo “Mani pulite” iniziata da magistrati che puntano al presidente e che Erdogan indica come gulenisti.

Gulen nel frattempo lascia la Turchia temendo di essere arrestato e si rifugia in Pennsylvania. Dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, diventa l’ossessione del presidente che lo accusa di essere il mandante del tentato colpo di stato.

In quella occasione Erdogan adotta lo stato di emergenza che ne rafforza i poteri e gli permette una dura repressione in materia di sicurezza interna. Per rinsaldare il suo potere, Erdogan nel marzo 2016 firma a Istanbul con la cancelliera tedesca Angela Merkel un accordo con la Ue in cui Ankara si impegna a gestire il flusso di rifugiati, ospitandoli nel proprio territorio, a fronte del sostegno finanziario di 6 miliardi di euro da parte di Bruxelles.

L’accordo, che fornisce un’arma negoziale enorme in mano a Erdogan e che ne rafforza la statura internazionale, prevedeva il rimpatrio in Turchia di coloro che fossero giunti ​​in Grecia illegalmente o la cui domanda di asilo fosse ritenuta inammissibile.

Erdogan è stato dato per finito numerose volte in passato, ma come un’araba fenice è sempre riuscito a recuperare lo svantaggio iniziale con una capacità tattica e di mobilitazione delle folle anatoliche adottando politiche conservatrici secondo la morale e liberaliste in economia. A dargli una mano questa volta ci sono le divisioni dell’opposizione che il giorno del terremoto non aveva nemmeno un candidato comune.

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