Il Pentagono mette in guardia la Turchia perché non attacchi la Siria nord orientale, in particolare le forze curde che la controllano. La preoccupazioni americane sono molteplici e fra tutte la principale riguarda le migliaia di detenuti dell’Isis: potrebbero cogliere l’occasione per darsi alla macchia, aiutati anche dal riemergere dei gruppi armati jihadisti poco più a sud.

Si tratta di più di 10mila combattenti attualmente detenuti in strutture che gli Usa considerano “improvvisate”, oltre ai circa 60mila loro familiari, anch’essi internati in campi. Se i peshmerga del Ypg (Unità di protezione del popolo) fossero costretti a rispondere all’attacco di Ankara, non avrebbero certamente più la forza per controllare i campi e i centri di detenzione del nord est.

L’attacco turco permetterebbe all’Isis di trarre vantaggio da una situazione sempre più caotica, oltre che sottoposta agli effetti socio-economici della crisi globale. Pur riconoscendo le «legittime preoccupazioni per la sicurezza della Turchia» (in riferimento ai legami del Ypg con il Pkk, partito dei lavoratori curdi), gli Usa auspicano che l’annosa contesa curdo-turca venga risolta una volta per tutte attraverso il dialogo e non mediante l’azione militare.

La guerra tra Pkk e Turchia

La guerra tra PKK e Ankara dura da più di 40 anni e ha provocato numerosissime vittime. Per la prima volta da molto tempo Washington propone un «processo politico e un dialogo», considerando che gli scontri armati finora non hanno risolto nulla.

Si tratta di un linguaggio inusuale per il Pentagono a dimostrazione di come la situazione a nord della Siria sia considerata preoccupante e necessiti – secondo gli americani – di una sistemazione definitiva. Tra l’altro alla coalizione militare internazionale guidata dagli Stati Uniti che ha sconfitto l’Isis nel 2019, si erano unite le forze democratiche siriane (Sdf), espressione del Ypg e dei suoi alleati locali.

Gli Stati Uniti si sono convinti che la caccia ai terroristi dello Stato islamico durerà molto tempo e hanno bisogno dei curdi per portarla avanti: non si fidano di nessun altro. La Turchia, cruciale membro della Nato, si è sempre opposta all’intesa tra Washington e le forze curde in Siria.

Per Ankara sarebbe stato meglio non creare il Rojava e per questo ha sempre reagito facendo pressione sull’area. Ad esempio l’azione militare turca di fine 2019 aveva già causato la fuga di circa 300.000 sfollati. Ora gli Stati Uniti temono che si ripeta una situazione simile, moltiplicando il caos nella regione. Secondo gli analisti sono le città di Tal Rifaat e Manbij a essere gli obiettivi più probabili di Ankara.

L’avversione americana all’ipotesi di attacco turco va ad aggiungersi a quella iraniana e in parte anche a quella russa, anche se per motivi diversi. L’inviato speciale russo per la Siria, Alexander Lavrentiev, a metà giugno ha affermato che la possibile operazione militare della Turchia in Siria sarebbe «atto imprudente, poiché potrebbe causare escalation e destabilizzazione».

Parole quasi simili a quelle degli americani. Intanto sono segnalati movimenti militari turchi sempre più intesi in direzione dell’area contesa, con l’attraversamento ai vari valichi di frontiera di colonne di carri e mezzi pesanti turchi, compresa artiglieria e trasporto truppe.

Le forze di Damasco

In caso di battaglia c’è incertezza su cosa faranno le forze armate siriane del governo di Damasco. Alcune voci le danno in procinto di ritirarsi della cittadine contese a causa di un accordo segreto con Ankara basato su un gioco di scambi di cui non è nota l’entità.

Altre fonti riferiscono di intensi preparativi militari a difesa dell’area, assieme agli alleati locali, in primis i russi. Droni, probabilmente turchi, hanno preso di mira alcune basi curde e siriane a Tal Rifaat, mentre scaramucce starebbero già svolgendosi nella campagna settentrionale attorno ad Aleppo.

Anche se fino a ora le forze del regime siriano non si sono ritirate, molti sono coloro che dubitano che, nel caso di attacco turco contro le forze curde, accetteranno di combattere contro Ankara, preferendo probabilmente ritirarsi, così come era già accaduto nel 2018 per la città di Afrin, passata sotto controllo turco con l’operazione “ramo di ulivo”.

Intanto a Manbij si susseguono manifestazioni contro la Turchia con l’appoggio dei capi tribali locali che hanno chiamato gli abitanti a difendere la cittadina. Delegazioni di sceicchi di città e villaggi vicini, assieme a funzionari dell’amministrazione civile, hanno incontrato i leader delle Sdf per esprimere il loro sostegno contro le minacce militari turche.

Gran parte delle tribù arabe della zona non vogliono che scoppi un’altra guerra e rifiutano ogni appoggio alle iniziative militari. La paura dei civili è che le conseguenze rendano ancora più drammatica una situazione che è già di crisi economica: temono che il loro territorio si trasformi di nuovo in un campo di battaglia, causando la distruzione delle fragili strutture industriali e dei mercati.

Manbij è uno dei rari centri industriali della regione e funziona da piattaforma commerciale per le regioni della Siria nord orientale. Il governo di Damasco aveva perso il controllo della città a fine del 2012 davanti all’esercito libero siriano (Fsa) . Successivamente, nel 2014, Manbij era caduta sotto il controllo dell’Isis fino a quando i curdi delle Sdf l’avevano liberata a metà del 2016, con il sostegno della coalizione guidata dagli Stati Uniti.

In attesa dell’offensiva turca, unità curde e milizie sciite sostenute dall’Iran hanno installato una sala operativa congiunta – sotto supervisione russa –  allo scopo di opporsi più efficacemente. La base si trova nel villaggio di Hardatnin – tenuto dai russi – nella zona rurale a nord di Aleppo. Ora vi fanno capo le Ypg curde, un reparto affiliato a Hezbollah libanese; alcuni gruppi armati; militari dell’esercito siriano e infine le brigate Baath. Il coordinamento è affidato a un gruppo misto di ufficiali: due russi, tre pasdaran iraniani, tre curdi e due delle forze regolari siriane. Una strana alleanza saldata a causa del comune timore dell’avanzata turca. 

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