Il modo in cui si rappresenta da più parti il conflitto in corso in Ucraina alimenta l’emergere di posizioni identitarie radicali e contrapposte e rischia di contribuire a generare nuova violenza, anche dentro alle nostre società. Quello che è avvenuto nell’ultimo decennio in Siria, paese da cui ora partono mercenari e migranti proprio verso l’Ucraina, offre su questo alcuni spunti di riflessione, legati non solo a considerazioni belliche e geopolitiche ma anche alle insidie nascoste nei dibattiti e nei processi politici in corso, spesso appiattiti su una visione di breve termine innescata da reazioni emotive e incentrati su una falsa contrapposizione tra il bene e il male.

Di Terza guerra mondiale si era già parlato quasi dieci anni fa, in occasione dell’inasprirsi delle violenze armate in Siria, scoppiate undici anni fa e che hanno fino a oggi ucciso almeno mezzo milione di persone e costretto 12 milioni di siriani ad abbandonare le loro case.

La Russia è un attore chiave nella vicenda siriana assieme agli Stati Uniti, a Israele, all’Iran, alla Turchia e a molti altri. Dal mar Nero al mar Rosso, dal Caspio al Mediterraneo, con le sue basi in Siria Mosca ha consolidato la sua presenza fino a lambire le coste italiane.

L’insegnamento siriano

Foto AP/Raad Adayleh

In Siria la Russia di Putin si è comportata come, se non peggio, di come si sta comportando adesso in Ucraina. E lo ha fatto perché tutti gli attori coinvolti, compresi gli Stati Uniti e i suoi alleati, tra cui l’Italia, glielo hanno permesso.

In Siria Putin ha sperimentato sulla pelle di molti siriani armamenti e tecniche di annientamento di gruppi armati e popolazioni civili, costrette a scappare sotto le bombe tramite corridoi di fuga concessi durante trattative-capestro.

La Siria è stata per la Russia di Putin una vera e propria palestra. E questo ha fatto comodo a molti paesi occidentali: ha tenuto in piedi il governo centrale di Damasco, incarnato dal contestato presidente Bashar al Assad, e ha “combattuto il terrorismo” identificato da molti soltanto con gli insorti dell’Isis.

La campagna militare russa in Siria è cominciata formalmente nell’autunno del 2015. Ma l’intervento decisivo c’era già stato da due anni prima, nel 2013, dopo il primo attacco chimico governativo contro i civili alle porte di Damasco.

Putin era intervenuto per aiutare l’allora presidente Usa Barack Obama a salvare la faccia dopo i goffi tentativi di fare qualcosa senza fare nulla. Mosca ha così avviato allora, col consenso occidentale, la graduale riabilitazione di Asad, percepito non più come “parte del problema” ma come “parte della soluzione”.

In Siria Putin ha fatto comodo a molti

Mikhail Klimentyev/Foto AP

La mano di Mosca - ma non solo di Mosca - ha pesato particolarmente sull’assedio e la distruzione di Aleppo, metropoli millenaria così legata alle città italiane e a tutto il Mediterraneo, da secoli crocevia di incontri, scambi di idee e mercanzie, eppure così nuda e inerme di fronte al fallimento della diplomazia occidentale.

La comparsa dell’Isis in Iraq e in Siria ha poi facilitato il compito di chi sosteneva - e sostiene ancora oggi - che la dittatura sia meglio dei tagliagole: come se questi due fenomeni non siano elementi dello stesso circolo vizioso fatto di ingiustizia sociale, repressione, violenza.

In questi anni la Russia di Putin si è spartita le spoglie della Siria con Turchia, Iran, Israele, e con gli stessi Stati Uniti. Il coordinamento in Siria tra russi e americani è quotidiano, anche in questi giorni di altissima tensione in Ucraina.

Ma la cartolina più suggestiva che la Russia ci ha spedito dalla Siria in questi anni è quella delle rovine d’epoca romana di Palmira, considerate da più parti un simbolo della civiltà occidentale, “salvate dalla barbarie jihadista grazie a Putin”.

Il presidente russo, che ora in molti sperano di vedere alla sbarra alla Corte penale internazionale, è lo stesso che, con la sua azione in Siria, permette oggi e permetterà domani a diversi paesi occidentali di tornare a fare affari, sotto e sopra il banco, con Asad e con i mille signori della guerra e del narcotraffico alle porte di casa nostra.  

Il problema delle sanzioni

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Come per anni accaduto a proposito del conflitto siriano, molti commentatori sembrano oggi imprigionati in una lettura fondata sulla contrapposizione tra “buoni” e “cattivi”.

Per cui la prospettiva dell’altro è delegittimata, se non omessa dal racconto. Il dibattito sull’imposizione delle sanzioni economiche e commerciali si limita, per esempio, a discutere dell’efficacia tecnica di alcune misure specifiche senza considerare uno dei fatti più lampanti emersi negli ultimi decenni: le élite al potere raramente vengono indebolite dalle sanzioni, strumento punitivo e non di deterrenza.

Questo colpisce invece inesorabilmente e nel lungo termine la gente comune, quella che non può aggirare gli ostacoli posti dalle regole bancarie, che non può nascondersi dietro prestanome e società fantoccio.

Come insegna la storia siriana e di molti altri scenari di crisi dal secondo dopoguerra a oggi, le sanzioni economico-commerciali raramente fanno cadere i regimi, non fermano le guerre. Al contrario, i governanti sanzionati usano lo stato di assedio per giustificare l’inasprimento di pratiche repressive.

Tra l’altro, una volta messe le sanzioni è difficile toglierle, anche quando ci si accorge che fanno solo danni. In questo clima, il racconto mediatico sembra celebrare la demonizzazione dell’altro, amplificata dalle decisioni di imporre sanzioni agli ambienti della cultura e dello sport, canali privilegiati invece di dialogo e confronto.

Le milizie civili

Foto AP/Andrew Marienko

Il discorso sull’Ucraina suggerisce, inoltre, l’esaltazione delle milizie di civili, persino di mercenari stranieri pronti a combattere contro il Male. Anche su questo la Siria insegna: la militarizzazione della società non solo non ferma la guerra, ma sparge semi di odio nel tempo lungo di comunità ferite, alimentando dinamiche di violenza e divisione.

Da qui è breve il passo per giustificare la pulizia etnica e per assuefarci ad essa. Lo fanno da anni i russi, gli iraniani e i governativi siriani contro milioni di civili di Idlib. Lo fanno i turchi e i loro miliziani arabi ai danni dei curdi di Afrin.

Lo fanno i curdi contro gli arabi di Dayr az-Zawr. I contesti sono ovviamente diversi, ma sostenere anche indirettamente il circolo della violenza può causare danni irreparabili.

Più di un milione e mezzo di persone sono ora in fuga dall’Ucraina, ma chissà quando e come potranno tornare. E chissà cosa potrà succederà domani ai civili dei protettorati russi in Ucraina. Per milioni di siriani, sparsi in medio oriente e nei quattro angoli del pianeta, è ormai un sogno irrealizzabile tornare alle loro terre. Queste sono state trasfigurate dalla stessa logica del rifiuto dell’altro - del “cattivo” - che oggi impregna così tanto il dibattito sulla crisi ucraina.

Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa e Limes per il medio oriente, ha un’esperienza ventennale tra Siria e Libano. È autore, tra gli altri, di Negoziazione e Potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni, Mondadori Education, 2022.

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