Esattamente due anni fa, il primo ministro indiano Narendra Modi abrogava gli articoli 370 e 35A della costituzione della seconda nazione più popolosa della terra. Erano quelli che garantivano una speciale autonomia al Jammu e Kashmir (conosciuto anche semplicemente come Kashmir), uno dei (oggi) 28 stati e 8 territori che compongono il gigante che va dall’Himalaya ai Tropici. La svolta era storica: per 70 anni l’autonomia del Kashmir era stata giudicata necessaria dal governo di Delhi perché alla nascita dell’India moderna e induista il Kashmir era l’unico stato a maggioranza musulmana (insieme alle lontane Laccadive).

Quindi il permettere libertà d’azione al Kashmir – da sempre culturalmente autonomo e geloso della propria identità – significava prevenire la tentazione del lato indiano del Kashmir di staccarsi e agganciarsi al lato pakistano, cioé la tentazione di riunire due porzioni della stessa regione rimasta divisa dalla drammatica partizione del ‘47.

Due anni dopo, il Kashmir è più in crisi che mai e non c’è centro studi internazionale che non preveda che il “tetto del mondo” sarà il palcoscenico di una guerra tecnicamente regionale, ma in realtà di impatto globale.

Tra le due fette di Kashmir, infatti, esiste uno dei confini più bollenti del pianeta: la famosa Linea di Controllo, 740 chilometri disegnati nel ‘71 dopo la prima guerra indo-pakistana per dare un senso geografico al fragile cessate il fuoco e poi più volte ridisegnata. Lungo questa linea divisoria gli scontri tra i due eserciti sono regolari e a volte spettacolari.

Anche se la militarizzazione dell’area è in crescita, la vera battaglia si combatte a valle, nei registri del catasto, negli uffici pubblici e negli uffici dell’anagrafe. L’abolizione degli articoli della Costituzione, infatti, ha permesso per la prima volta a cittadini e società indiane non residenti in Kashmir di comprarvi proprietà immobiliari o di prenderne la residenza, di votare e di diventare dipendenti pubblici, agevolando un’immigrazione interna che secondo i nemici di Modi sta diluendo la composizione etnica del Kashmir indiano, nel tentativo di rendenderlo meno musulmano e meno pro-indipendenza. Questo movimento non nasce per caso, ma è istigato dal crescente sentimento nazionalistico sentito da chi nel 2019 ha votato in massa per Modi sognando un’India potenza regionale, dominante economicamente e culturalmente.

Uno scontro ad alti livelli

In tutto ciò, nessuno si sogna di consultare gli abitanti del Kashmir, immersi in una realtà drammatica: moltiplicazione delle truppe indiane inviate a mantenere l’ordine, moltiplicazione degli attacchi terroristici anti-India, moltiplicazione delle formazioni terroristiche islamiche che attraversano il confine dal Pakistan e colpiscono in modo violento, economia in crisi, disperazione diffusa, diritti umani calpestati, prigioni piene di esponenti politici non allineati con Dehli.

Il problema è che il vecchio conflitto del Kashmir non è più solo interno indiano, o tra India e Pakistan. Ora attraverso tutta la regione e con la fuga degli americani dall’Afghanistan ha conseguenze ancora più ampie. L’India, infatti, controlla una seconda regione kashmirina chiamata Ladakh, anch’essa rivendicata dal Pakistan.

Poi sul lato orientale l’India fronteggia un secondo gigante, la Cina, che controlla l’Akhsai Chin, territorio quasi disabitato ma che da sempre l’India ritiene faccia parte del Ladakh. A “dividere” questi territori, vecchie e contradditorie “linee” di confine disegnate sulle mappe dai diplomatici inglesi – e ancora conosciute con nomi come la Linea Johnson, la linea Maccartney-Macdonald.

Così, il quadro politico è subito chiaro: esistono due potenze nucleari nemiche da 70 anni – India e Pakistan – che litigano sul Kashmir, e ce n’è una terza, la Cina, che assiste silenziosa alla lite, pronta a farsi sentire se necessario. L’anno scorso, per esempio, vicino al lago Pangong, cinesi e indiani sono passati dal tirarsi sassi a scambiarsi pallottole e gli esperti militari dicono che la Cina cela sul campo forze militari importanti.

Quando a sgomitare sono tre nazioni così ambiziose, il pericolo è evidente. Ma viene da chiedersi se il Kashmir valga questo pericolo e cosa ci sia davvero dietro tanta rivalità, tanti costi e tanti sforzi. La regione ha fama di essere uno dei luoghi più belli al mondo, e a volte le nazioni si combattono per motivi anche più futili della bellezza.

Per esempio il desiderio di vendetta per un “torto” subito decenni fa. Per qualcuno, il torto ha il nome dell’ultimo marahaja del Kashmir, Hari Singh, sovrano indù di una nazione (al 77 per cento) musulmana che comprendeva quelli che oggi sono i tre Kashmir: indiano, pakistano e cinese.

Inizialmente il maharaja non era entrato a far parte dell’India post coloniale, forse sognando di restare indipendente. Il Mahatma Gandhi gli aveva fatto visita nel suo splendido palazzo Mubarak Mandi, suggerendogli di far decidere al popolo se aderire al Pakistan o all’India. Ma il maharaja non si decideva a mettere la questione al voto, temendone il risultato. Così il neonato Pakistan aveva attaccato il Kashmir per accelerare l’unificazione con il resto della nazione musulmana, che il Pakistan dava per scontata. Il marahaja si era impaurito, aveva chiesto al governatore Louis Mountbatten di mandare truppe per restare sul trono. Mountbatten era un grande ammiratore dei nuovi leader indiani e in particolare del primo ministro Jawaharlal Nehru (nonostante il Nehru fosse l’appassionato amante della moglie Edwina) e quindi aveva accettato di aiutare il maharaja a patto che il Kashmir aderisse all’India.

Un prezzo elevato

Adesione pagata cara: una guerra nel ’48, una nel ’65, una nel ’99. Ma oggi il conflitto è sfuggito di mano. Altro che principi, visconti, cime innevate, figli della mezzanotte: in gioco c’è il grande spauracchio moderno, cioé il terrorismo internazionale islamico insieme alla diffusione di forme di governo islamico-nazionalistico-conservatrici. Qui si arriva al punto. E alla mappa, che come al solito spiega tante cose perché ispira un dilemma che, molto semplificato, suona così: se il Pakistan, mentre ufficialmente amoreggiava con Washington, da cui riceveva aiuti sostanziosi, in realtà era capace di aiutare, ospitare, finanziare Osama bin Laden e i Talebani (per esempio fu tra i pochi a riconoscere il precedente governo talebano a Kabul), e se questo appoggio ai Talebani e forse anche a al Qaeda è proseguito fino a oggi in nome della fratellanza musulmana e del sogno di grande emirato pakistano-centrico che va dall’Himalaya al Golfo Persico, cosa impedirebbe oggi il ripetersi dello stesso doppio gioco? Cosa impedirebbe ai gruppi islamici protetti dal Pakistan prima di appropriarsi del Kashmir indiano, bomba dopo bomba, poi di di fatto aprire la frontiera afghano-pakistana e infine destabilizzare l’India stessa e poi persino minacciare la Cina, finendo comunque per ridisegnare a proprio favore l’Asia centrale da cui gli americani sono fuggiti?

La domanda se la pone anche la Cina, che prende la minaccia della sua minoranza islamica molto sul serio e che capisce come queste tessere del puzzle possano unirsi. In fondo tra Islamabad – capitale pakistana – e Srinagar, capitale (estiva) del Kashmir indiano famosa per le bellissime case galleggianti, la distanza è davvero breve. E il nuovo Afghanistan talebano è lì dietro, parte dello stesso quadro. Per i cinesi i pericoli sono chiari: l’Afghanistan confina con la Cina attraverso il Corridoio di Wakhan, creato da inglesi e russi nel 1895 come un cuscinetto tra due imperi. Il Wakham è appunto in cima al Kashmir ed è la rotta dall’Afghanistan alla regione del Xinjiang, quella dove passava l’antica Via della Seta e dove abita la travagliata minoranza uigura.

Così la Cina vuole stringere amicizia con i Talebani in cambio di una loro cooperazione sul fronte islamico interno. Così come la Russia vuole aiutare i Talebani, non solo come simbolo di umiliazione per gli Stati Uniti ma anche perché sono potenziali partner nel gioco di tenere i vari Stan collegati all’antica capitale imperiale, Mosca. In Pakistan il primo ministro, l’ex campione di cricket Imran Khan, viene chiamato “Taliban Khan” per le sue simpatie nei confronti dei barbuti guerriglieri della porta accanto. Il Carnegie endowment for international peace dice che i leader talibanai viaggiano con passaporti pakistani, possiedono business immobiliari importanti in Pakistan, hanno il permesso di muovere uomini e armi sui due lati del confine senza problemi e soprattutto gestiscono la coltivazione e commercio di oppio con l’appoggio di parti importanti dell’establishment militare pakistano. Per i generali pakistani avere i Talebani al potere a Kabul, quindi, significa prima di tutto arricchirsi, poi mettere in difficoltà l’India nel Kashmir e poi, nel grande scambio di favori, contenere la ribellione interna delle proprie minoranze ribelli, su cui solo i Talebani possono avere influenza.

Quindi se Cina, Pakistan, Russia (e parte del mondo arabo), oltre ai rappresentanti del crimine organizzato in occidente, hanno interesse ad avere i Talebani al potere a Kabul, il primo a farne le spese potrebbe essere il Kashmir. Sulla linea di controllo si controlla il futuro dell’Asia.

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