È una brutta storia quella della discriminazione razziale negli Stati Uniti. Una storia «ignobile» in cui anche la principale istituzione di garanzia del sistema, la Corte suprema, ha a lungo «giocato il suo ruolo», come riconosce lo stesso collegio in una decisione presa, sei a tre, giovedì scorso, e che è destinata a inserirsi a pieno titolo in questa vicenda.

Uguali sulla carta ma separati nei fatti

È una storia lunga, che comincia almeno nel 1865, quando, chiusa la guerra civile con la vittoria degli stati del nord, viene abolita la schiavitù in tutto il paese. Gli Stati Uniti si trovano così con quasi cinque milioni di neri, non più schiavi, ma che nessuno è pronto a trattare come i cittadini bianchi.

Il XIV emendamento della Costituzione, ratificato nel 1868, ci prova a impedire agli stati membri di «negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi», sia esso nero o bianco, ma, perché la lettera diventi realtà, la strada è ancora lunga e tortuosa.

D’altra parte, alla fine del secolo, la Corte suprema ancora chiariva che, pur essendo tutti uguali, alcuni erano meno uguali di altri, e che il fatto che i neri non fossero uguali ai bianchi era un dato di natura, non certo di diritto, che in quanto tale non poteva mutare. Quindi, va bene sì, uguali, ma comunque separati: scuole separate, posti in treno separati, e così via. «Separate but equal» era la surreale formula.

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Le cose cambiano solo dopo la seconda guerra mondiale, da cui gli Stati Uniti escono consacrati come il faro e la difesa della democrazia in occidente. Faro e difesa che, però, a casa sua, ancora praticava la segregazione razziale, perché uguali, sì, ma separati.

Per la svolta bisogna attendere il 1954, quando finalmente la Corte suprema – che da quegli anni comincia a porsi come forza progressista del sistema – si accorge (e ha il coraggio di dire) che quel famoso XIV emendamento non può che vietare un regime di segregazione razziale, e che, se sei «separate», tanto «equal» non sei.

Abolita la segregazione razziale, le cose per le persone di colore non cambiano da un giorno all’altro. Nel tentativo di rimuovere le diseguaglianze di fatto che hanno continuato ad esistere, il decisore politico ha spesso adottato delle misure di promozione, cui tecnicamente ci si riferisce come “azioni positive”.

Il paradosso dell’uguaglianza

Si tratta di un paradosso logico, che però è di immediata comprensione: per rimuovere le eguaglianze di fatto, devi certe volte violare il principio di eguaglianza formale. Così, ad esempio, se vuoi favorire l’eguaglianza di genere, devi introdurre (anche) misure di favore che hanno per destinatarie solo le donne.

È una disparità di trattamento, certo; è in qualche modo una violazione del principio di eguaglianza, certo; ma se non lo fai, la diseguaglianza di fatto non la elimini. Lo stesso vale anche per la discriminazione razziale.

Se vuoi effettivamente garantire una tutela alla minoranza di colore, rimuovendo gli elementi di discriminazione di fatto, devi ad esempio considerare, tra i criteri di valutazione dei candidati per l’accesso all’Università, anche la razza (il termine è brutto, è vero, ma è la traslitterazione precisa del «race» statunitense, intorno a cui ruota tutto il discorso).

È quello che ad esempio faceva – almeno fino a giovedì – l’università di Harvard, insieme ad altre università, beninteso. Un processo di selezione all’accesso che, tra i diversi criteri, aveva anche quello della «race», per evitare un «drammatico calo» di studenti appartenenti alle minoranze rispetto a quelli delle classi privilegiate.

APN

Gli effetti imprevedibili della decisione della Corte

Il verbo al passato è d’obbligo, perché, il 29 giugno, la Corte suprema – che, dalla presidenza Trump, ha una maggioranza schiacciante in senso conservatore, e gli effetti si son cominciati a vedere già da un po’ – ha dichiarato incostituzionale questo sistema d’ammissione, ritenendolo al pari di una eccessiva violazione del principio di eguaglianza formale.

Non che la Corte abbia dichiarato illegittime del tutto le «azioni positive» di cui sopra, ma, nella decisione in commento, richiede che esse siano costruite in modo da essere suscettibili di uno stretto scrutinio giudiziario, riducendo al minimo lo spazio della discrezionalità degli atenei.

Il rischio, però, è che ridurre le «azioni positive» quasi ad automatismi, senza alcun spazio per una decisione ragionata, libera da parametri del tutto oggettivi e stringenti, sia contrario alla loro stessa natura, o comunque vada nel senso di un loro drastico depotenziamento nel contrasto alle diseguaglianze di fatto. Insomma, la decisione della Corte sulla tutela delle minoranze razziale nell’accesso all’Università rischia davvero di avere – come scrive uno dei giudici della parte contraria – un «impatto devastante» che non è facile valutare sin da ora.

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