C’è una maledizione che incombe sulla testa di tutti i segretari del Partito democratico: nessuno di loro è mai riuscito a sopravvivere a un’elezione politica. Walter Veltroni, il primo, è quello che è durato di più: dopo il cattivo risultato alle politiche 2008 è riuscito a sopravvivere per meno di anno, dimettendosi dopo le successive regionali in Sardegna. Nel 2013, Pierluigi Bersani, azzoppato dalla “non vittoria” alle politiche, ha lasciato il partito poche settimane dopo il voto. Infine, Matteo Renzi, che nel 2018 ha portato il Pd al suo peggior risultato della storia, si è dimesso la mattina dello spoglio. Riuscirà Enrico Letta a invertire questa maledizione?

La soglia

Molto, come è ovvio, dipenderà dal risultato che il Pd otterrà il prossimo 25 settembre. Ma qual è la soglia di voti che gli garantirebbe la sopravvivenza e quale invece ne determinerebbe la condanna? «Credo che Letta punti a superare il risultato ultime europee, quando il Pd ha raccolto il 22,7 per cento – dice Mattia Guidi, professore di scienze politiche all’università di Siena – Se superasse quel risultato difficilmente gli si potrebbe rimproverare qualcosa: per il Pd sarebbe pur sempre un guadagno». Secondo Guidi, il fatto che il Pd abbia inglobato altre piccole liste sotto il contrassegno con cui andrà il voto è una strategia per cercare di rosicchiare qualche punto percentuale e garantirsi un risultato non troppo lontano da quello di tre anni fa. «Se il Pd di Letta arrivasse intorno al 24 per cento, il voto potrebbe essere considerato un vero successo. Anche un piazzamento tra il 22 e il 23 per cento sarebbe onorevole». I problemi veri per Letta, dice Guidi, inizieranno se i voti saranno meno di quelli alle Europee.

«Con le elezioni già date per perse, l’unica possibilità per Letta di scampare alla redde rationem è che la lista del Pd vada molto bene», dice Mattia Diletti, che insegna scienze politiche alla Sapienza di Roma ed è un attento osservatore del Pd che ha partecipato alla commissione Barca sul Pd di Roma. «Vedo due soglie – prosegue – andare meglio del 2018 e l’altra diventare il primo partito». Per Letta, rivendicare un risultato migliore del suo rivale Renzi alle precedenti politiche è la condizione minima per poter sopravvivere, ritiene Diletti. Ma la garanzia si avrebbe solo con un difficile superamento di Fratelli d’Italia, che i sondaggi danno stabilmente un paio di punti avanti al Pd.

Liste e correnti

In questo quadro rientra anche la formazione delle liste elettorali: supervisionate da Letta e duramente criticate sia dentro che fuori dal partito. Letta ha blindato la sua segreteria oppure si è scavato la fossa inimicandosi i centristi?

«Sulle liste, il primo investimento del segretario è stato sulla compattezza del futuro gruppo parlamentare, che con una sconfitta in vista non è una cosa secondaria», dice Diletti: soprattutto con un imprevedibile governo di destra in arrivo, un governo che potrebbe durare anche a lungo. In quel caso sarà una gara di resistenza per il segretario Pd e aver un gruppo parlamentare affidabile sarà molto importante.

«Ma nel partito rimane una componente di persone che erano rimaste dentro dopo la scissione di Renzi e che continua a essere una sorta di quinta colonna un po’ estranea», dice Guidi. Si tratta di una minoranza che non intende unirsi ai centristi, ma che punta a riprendersi il partito. Guidi ricorda il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini che, pur negando l’intenzione di scalzare Letta, ha già iniziato ad agitarsi dietro le quinte. Alle critiche dei centristi, però, andrebbe fatta una tara, ritiene Guidi. «Dalla composizione delle liste io non direi che Letta ha spostato il partito più a sinistra. Ci sono candidature come quelle di Cottarelli e Casini che mostrano che Letta vuole presidiare anche l’area centrista, ma non vuole appaltarla alla copertura dei renziani o ex renziani». Questo però lo espone al rischio di avere «una maggioranza di partito eterogenea».

I rivali disuniti

«Se ci sarà una sconfitta come quella di cui parlano i sondaggi è inevitabile che gli faccia seguito un forte conflitto nel Pd – è d’accordo Diletti – Perché è saltato l’accordo con Azione? Perché non si è fatto quello con il M5s? Era veramente impossibile costruire una coalizione più robusta? Sono tutte cose che saranno rinfacciate a Letta, anche se magari in termini diversi. Ovviamente molto dipende dai margini di sconfitta».

Diletti però è scettico su quanto i rivali di Letta siano capaci di radunarsi intorno a una leadership alternativa. Non crede troppo a quella di Bonaccini: fin dai tempi del Pci, gli emiliani funzionano poco fuori dalla loro regione, ricorda. Alla fine, un risultato elettorale non troppo distante dai sondaggi, che danno il Pd sopra il 20 per cento, e la divisione dei suoi avversari interni, potrebbero essere tutto ciò di cui Letta ha bisogno per restare in sella e spezzare così la maledizione. O, almeno, rimandarla di qualche mese.

 

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