La riforma di quota 100? Un bagno di sangue per le casse statali. A mettere nero su bianco l'annotazione non sono i custodi del rigore europeo, ma è direttamente il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, attraverso il Documento di economia e finanza. Un testo votato senza batter ciglio in consiglio dei ministri anche dal vicepremier, Matteo Salvini, grande sponsor di quel provvedimento. Il passaggio del Def ha sostanzialmente fatto a pezzi la riforma introdotta come meccanismo previdenziale nel triennio 2019-2021.  

La spesa di Quota 100

Alla voce spesa pensionistica c’è l’analisi dell’esborso pubblico su questo capitolo, un preludio all’intervento in cantiere sulla previdenza. Nel 2018, quindi negli anni post riforma Fornero, la spesa valeva il 15,2 per cento in relazione al Prodotto interno lordo. Tuttavia, «negli anni 2019 - 2022, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil aumenta con un picco in corrispondenza del 2020». C’è stato un boom. La ragione è individuata nella «forte contrazione dei livelli di Pil dovuti all’impatto dell’emergenza sanitaria nella sua fase iniziale e più acuta». Il livello massimo a cui si fa riferimento è il 16,9 per cento, toccato nel 2020, quasi un punto e mezzo in più rispetto a due anni prima.

Ma la colpa, come sottolinea Giorgetti, non è solo della pandemia: «L’andamento è fortemente condizionato anche dall’applicazione delle misure in ambito previdenziale contenute nel decreto-legge n. 4/2019», ossia la quota 100 cara a Salvini che ha favorito «il pensionamento anticipato, determinando un incremento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati».

In tutto il Def è difficile rinvenire un approccio così ruvido su altre misure, eccezion fatta per i passaggi sul Superbonus, che infatti il governo ha provveduto a cancellare.

In questo caso c'è un’ammissione diretta, firmata da Giorgetti e avallata da Salvini su un fallimento tutto made in Lega a differenza del Superbonus. Il partito procede così all’insegna del motto “indietro tutta” sulle misure votate appena qualche anno fa.

Quota 100 era infatti la misura bandiera salviniana, introdotta per cancellare «l’infame legge Fornero», come il segretario della Lega ha sempre etichettato la norma voluta dal governo Monti. Una redenzione contro il rigorismo degli anni precedenti.

Ma ormai è roba da archivio. il contenuto del Def è un monito su cosa non fare per il futuro sul sistema previdenziale. La cautela dei numeri spiega il perché: la previsione di spesa pensionistica è del 16,7 per cento sul Pil nel 2030, un dato comunque inferiore in confronto a quello del 2020 nel pieno splendore di quota 100.

Le altre retromarce


E non si tratta dell’unica marcia indietro innestata dai leghisti nelle ultime settimane. Un altro caso esemplare riguarda il reddito di cittadinanza, additato dal centrodestra come il male assoluto del mercato del lavoro. Eppure quella legge è entrata in vigore grazie ai voti della Lega, all’epoca in coalizione con il Movimento 5 stelle, nell’ambito dello stesso decreto di quota 100. Uno scambio reciproco su cui però Salvini non ebbe da ridire, garantendo i voti necessari all’approvazione. Il ripensamento, va detto, non è stato così repentino: quando è tornato all’opposizione ha fatto mea culpa, sostenendo di aver fatto un errore. Così ora il governo Meloni si appresta a cassare un’altra riforma che la Lega ha votato. Una bocciatura postuma dell'esperienza gialloverde.

Ancora più surreale è il cambio di passo sulla protezione speciale, oggetto della contesa del decreto Cutro. I leghisti ne stanno facendo una questione di principio, alimentando delle tensioni nella maggioranza. Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno cercato una mediazione, che è andata a cozzare contro l’irrigidimento del capogruppo al Senato della Lega, Massimiliano Romeo. Eppure la protezione speciale, oggi invisa a Salvini, era stata introdotta proprio dal decreto Sicurezza. 

La misura fu estesa dal Conte bis, sotto la spinta del Partito democratico che mirava a ricevere quel provvedimento. Resta il fatto che la protezione speciale era già prevista, nel 2018, per le persone che rischiavano di essere respinte in uno Stato dove esistono «fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura». E, peraltro, «nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani». Lo aveva voluto l’allora ministro dell’Interno del primo governo Conte per garantire un livello minimo di accoglienza. Lo stesso che da vicepremier con Meloni vuole cancellarlo.

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