Intrappolato in una coalizione non competitiva, diviso al suo interno e incapace di produrre una linea chiara, il Partito democratico in campagna elettorale è costretto a battere sulla grancassa dei grandi allarmi democratici: allarme presidenzialismo, allarme legge elettorale, allarme razzismo e discriminazioni, allarme taglio dei parlamentari. I sondaggi ci dicono che non sono in molti ad aderire alla chiamata e le ragioni sono evidenti: il Pd è tra le prime cause dei grandi mali da cui oggi mette in guardia gli elettori.

Il disastro Rosatellum

Il grande tema è che il Pd ha trascorso in un modo o nell’altro quasi dieci anni al governo e in questo periodo non è riuscito a fare nulla di ciò che ora promette in campagna elettorale: una legge ani-discriminazioni come il ddl Zan, un salario minimo, una vera lotta al precariato e investimenti in scuola, sanità e istruzione.

Ma se dai grandi temi scendiamo ai casi singoli la situazione è ancora più imbarazzante per il Pd. Prendiamo il Rosatellum, la legge elettorale che con il suo meccanismo misto maggioritario e proporzionale sta per regalare quasi due terzi del parlamento a un centrodestra che probabilmente non arriva al 50 per cento dei voti.

Il segretario del Pd Enrico Letta, che all’epoca dell’approvazione di questa legge elettorale era in Francia ad insegnare, ha buon gioco nell’attaccarne frontalmente gli effetti distorsivi del Rosatellum, ma il resto del suo partito non può far altro che chiudersi in un silenzio imbarazzato. Non solo il Rosatellum è stato voluto, scritto e votato dal Pd (anche se il suo autore, Ettore Rosato, è nel frattempo transitato in Italia Viva), ma è stato approvato con una fiducia messa dal governo Pd di Paolo Gentiloni.

Era il 2017 e a rileggere le cronache di quei giorni sembra difficile non giudicarla una delle operazioni politiche più fallimentari dell’ultimo decennio. Imposto dall’allora segretario Pd Matteo Renzi, il Rosatellum doveva garantire una robusta maggioranza al Pd – Renzi infatti puntava a fare il pieno di collegi uninominali grazie a un consenso che era convinto fosse ancora intorno al 40 per cento – e doveva distruggere il Movimento 5 stelle che, sperava Renzi, rifiutando le alleanze sarebbe risultato non competitivo nei collegi.

I grandi azionisti del Pd, Dario Franceschini e Andrea Orlando, non erano affatto entusiasti, ma alla fine hanno accettato perché speravano che la parte uninominale della legge elettorale facilitasse la creazione di una coalizione di centrosinistra. Gentiloni ha provato a opporsi alla fiducia, ma alla fine anche lui è stato persuaso.

Gli unici che già all’epoca hanno votato con entusiasmo sono stati Lega e Forza Italia. Sappiamo poi com’è andata: alle elezioni 2018, il Pd non è riuscito a creare una coalizione competitiva e ha ottenuto il risultato più basso della sua storia, il Movimento 5 stelle ha fatto il pieno di collegi al sud e il centrodestra è andato molto bene al nord. Tra tre settimane, le cose rischiano di andare ancora peggio.

Pericolo presidenzialismo

«No al presidenzialismo è una scorciatoia populista», ammonisce il severo volto di Letta da una delle card social diffuse dal Pd negli ultimi giorni. Con un centrodestra che rischia di ottenere due terzi dei seggi e con i centristi che hanno già annunciato di essere pronti a fornirgli i voti che eventualmente mancheranno, il rischio di una radicale riforma costituzionale presidenziale senza referendum confermativo è molto elevato. Ma il Pd non è esente da colpe se il mostro di un presidenzialismo arrabattato e mezzo orbaniano è entrato nel dibattito politico italiano. 

Fino agli anni Duemila, il presidenzialismo fa qualche sporadica comparsa nel dibattito e nelle proposte di riforma della Costituzione, ma è con l’arrivo sulla scene del Pd che il presidenzialismo diviene una mezza ossessione del centrosinistra, soprattutto per quei riformisti veltroniani che, imbevuti di amore per la politica Usa, vedono in qualche forma di semipresidenzialismo il proiettile d’argento con cui superare quella che giudicavano l’impassabile palude del parlamentarismo italiano.

Con il tramonto del sogno veltroniano di un Pd autonomo e maggioritario si è affievolito anche il sogno presidenziale che, non a caso, è scomparso dalle ultime proposte di riforma costituzionale del centrosinistra. Ma per gli elettori con un po’ di memoria storica, l’odierno allarme lanciato contro la destra pronta a «sconvolgere la sacra costituzione» non può non sembrare piuttosto ipocrita.

Taglio & riforme

Ultimo capitolo: il taglio dei parlamentari e la mancata riforma dei regolamenti di Camera e Senato per accomodarlo. Anche qui, il segretario Letta ha ragione nel respingere le sue responsabilità: «È stato un errore ma non lo si imputi a me, che sono arrivato da un anno e mezzo», ha detto riferendosi al taglio approvato dal parlamento nell’autunno 2020 quando Nicola Zingaretti era segretario.

In cambio del suo sì alla riforma, il Pd ha ottenuto soltanto una generica promessa di vaghi correttivi a questa riduzione tra i quali è diventato realtà solo l’abbassamento dell’età di voto al Senato a 18 anni. In questo caso però c’è almeno un aspettato positivo in questa ennesima «zappata» che il Pd si è dato sui suoi stessi piedi.

Ed è il fatto che con un parlamento meno numeroso i governi sono per forza di cose più instabili. Dove prima servivano cinquanta fuoriusciti per far cadere un governo, oggi ne servono una trentina. E visto che la maggioranza sarà quasi certamente di centrodestra, il Pd avrà la magra consolazione che con i parlamentari è stato tagliato anche il numero di franchi tiratori necessari a far cadere un eventuale governo Meloni. Poca cosa, ma, di questi tempi, meglio di niente.

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