A 63 anni, dopo aver vinto (e perso) tanto in Italia e in Europa, va ad allenare la Under 19 della Stella EBK e la squadra in B2, responsabile di un’Academy internazionale. «Sono legato al sogno di esercitare un lavoro che è una passione, dove non sei valutato soltanto per una palla tirata da metà campo che entra o esce. I giovani hanno bisogno di guide, ma insegnano ambizione, desiderio, impegno quotidiano»
Con Matteo Boniciolli si finisce sempre a parlare della vita, del mondo, della felicità. «Mio padre Claudio dice che il retaggio di studente del liceo classico mi ha un po’ fregato nel mio mestiere. Perché mi sono sempre occupato troppo delle persone. Ma è di quello che mi piace occuparmi».
A 63 anni, dopo aver vinto (e perso) tanto in Italia e in Europa, dopo aver tirato su campioni e leggende, coach Boniciolli va dove lo porta il cuore. A Roma, alla Stella EBK. Allenatore dell’Under 19 e della squadra in B2, responsabile di un’Academy internazionale. E soprattutto vicino alla beata gioventù del basket di domani. «Vado dove sono felice, non dove c’è una categoria in più. Mi è stata offerta la possibilità di essere me stesso. E so che quando sono me stesso rendo». Dove siamo felici. E dove siamo sinceri. Lo sport non è solo un luogo di classifiche, risultati e sponsor. Oltre ai trofei c’è di più. «Rimango ostinatamente legato al sogno di esercitare un lavoro che è innanzitutto una passione e in cui il tuo mestiere non venga valutato solo e soltanto se una palla tirata da metà campo gira cinque volte attorno al ferro, entra o esce».
E scegliere di allenare i giovani glielo consente?
Quest’estate ho avuto due chiamate da club, ma mi proponevano cose che avevo già fatto. Poi mi ha telefonato Jacopo Giachetti, mio ex giocatore, che ho reclutato quasi trent’anni fa. Mi ha parlato di un programma ambizioso sui giovani. L’idea di un’academy con ragazzi da tutto il mondo. Ho sempre pensato di tornare ad allenare i giovani e questa volta si è concretizzato. Abbiamo trovato un accordo triennale: vivo a Roma, la città più bella del mondo. Non sono andato ad allenare la B2, io sono andato ad allenare giovani.
La sentiamo felice.
Sono entusiasta. Ho rifiutato realtà anche importanti. Cercavano persone che non incidessero troppo, che facessero quello che si dice e non rompessero le scatole. Io non sono fatto così, soprattutto alla mia età.
Cosa l’ha stancata del basket?
Ho avuto la fortuna di allenare in Serie A e all’estero, ma oggi preferisco dare una prospettiva al mio mestiere piuttosto che essere giudicato male dopo la seconda amichevole persa. Cito Giordano Consolini: in ogni società civile parte del lavoro è occuparsi del suo futuro. Questa proposta mi consente di occuparmi ancora di futuro invece che solo di presente.
Cosa bisogna insegnare ai giovani?
Prima di tutto bisogna imparare da loro. Mi sento come un "prigioniero del sogno", per dirla con il grande Oscar Eleni. Non voglio che il mio lavoro venga valutato solo da un canestro dentro o fuori. Tre miei giocatori di Torino quest’anno sono stati richiamati in Serie A: vuol dire che anche lavorando con passione si può costruire per il domani. Ma negli sport contemporanei lo spazio di progettazione si è ridotto.
E cosa ci insegnano loro, i ragazzi?
Ambizione, desiderio, impegno quotidiano. La cosa che mi attira di più di questa esperienza è l'energia che trarrò da questi ragazzi. E poi la multiculturalità. Abbiamo ragazzi dall’Uruguay, dall’Argentina, dal Senegal, dalla Bosnia. In un mondo sempre più fatto di muri, vivere in un ambiente internazionale è stimolante. Certo, ci sono schemi e rimesse, ma non è la parte più interessante del mio lavoro. Io mi trovo di più in un ambiente dove si possa pensare che se anche oggi perdi, magari puoi vincere domani.
Che generazione è?
Non l’ho ancora capita del tutto. I giovani sono sempre gli stessi, sono cambiati i genitori. La mia generazione prendeva una sberla per un brutto voto, oggi i genitori vanno a picchiare il professore. Insomma, i modelli di riferimento sono cambiati. Il difficile è trovare una frequenza comune: sono io che devo avvicinarmi a loro, non viceversa. Cominciamo il primo allenamento il 19 agosto, nel caldo di Roma. Lo faremo alle 7 del mattino: bisogna farli svegliare alle 5.30 felici. È una bella sfida.
I ragazzi hanno bisogno di maestri, di fiducia o di esempi?
Hanno bisogno di guide. Io ho sempre spaventato un po’, ma credo nella via di mezzo tra libertà assoluta e dirigismo. È la sfida educativa che abbiamo affrontato, che io ho affrontato come padre, come allenatore da ormai quarant’anni. Il basket è cambiato, i giocatori sono cambiati, il mondo è cambiato. Trent’anni fa per spostare un allenamento telefonavi a dodici case, oggi basta una chat WhatsApp. Non puoi ignorarlo: devi capire e rimanere te stesso. È una sfida che mi entusiasma.
C’è un episodio con un ragazzo che le è rimasto dentro?
Sì, con Langford, quando ero alla Virtus e vincemmo l’Eurochallenge. Keith era in difficoltà, poi finì la stagione da miglior giocatore del campionato. L’anno scorso, premiato dall’Olimpia Milano, disse che ero stato l’allenatore che gli aveva cambiato la vita. Non per il pick and roll, ma per averlo aiutato a capire la sua strada. Sono cose che restano. Ho fatto tante finali in carriera, ma una finale la puoi vincere o perdere per un tiro da metà campo all'ultimo secondo. Le relazioni rimangono e le relazioni che io ho con la gran parte dei giocatori che ho allenato, giocatori di altissimo livello, da Charlie Smith a Matt Bonner, Vukčević, Alibegovic, sono cose che segnano. Ecco, dovermi in qualche maniera riadattare a una gioventù che avevo inevitabilmente un po’ perduto di vista mi entusiasma.
Il razzismo lo ha incontrato nel basket?
Raramente nella mia vita. Ma viviamo in un contesto in cui si instilla il timore dell’altro. Il problema è l'interconnessione delle persone. Il problema è trovare un sistema per riuscire a vivere quanto meglio possibile assieme e non pensare che espellendo la gente si risolverà qualche problema. Perché torneranno. Perché quando un padre non ha da dare da mangiare ai propri figli della della Bossi-Fini se ne sbatte i coglioni.
Come sta il basket italiano?
Benissimo, guardando ai risultati delle nazionali giovanili. E mi auguro che anche la Nazionale possa fare bene all’Europeo. È stata una grande scelta quella di Petrucci di mettere la Federazione nelle mani di due fuoriclasse come Datome e Trainotti, e di conseguenza dei tecnici. Ma la sfida è far giocare i ragazzi tra i 18 e i 22 anni. Tranne rare eccezioni, non gioca nessuno per convinzione. Può giocare qualcuno per necessità. Gandini ha fatto un buon lavoro in Lega, Gherardini potrà dare ulteriore spinta a pensare basket per trovare percorsi per i giovani italiani. La vera domanda è: quanti dei dodici dell’oro Under20 avranno venti minuti in Serie A quest’anno? Vedremo.
Nba e business europeo: bene o male?
C’è. E i soldi muovono tutto. Il problema non è bene o male, ma fare in modo che in un Paese come il nostro in cui si mangia divinamente non ci facciano pensare che il McDonald’s sia il miglior cibo del mondo.
Si gioca troppo?
È un circolo vizioso molto brutto. Allenatori e giocatori guadagnano tanto perché giocano troppo. Io vorrei che si giocasse meno perché il corpo ha un limite di tolleranza, guadagnando di meno. Ma il business va in un’altra direzione.
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