Anche il luogo più desolato della Terra può ospitare la vita. La conferma è arrivata all’inizio di quest’anno, quando una squadra di scienziati guidati dal microbiologo cileno Armando Azua-Bustos ha trovato frammenti di dna in un’enigmatica miscela di microbi nel deserto di Atacama, in Cile. Si tratta della località più arida del nostro pianeta, geologicamente simile a Marte e per questo considerata il banco di prova ideale per le ricerche scientifiche relative al pianeta rosso.

Lo studio ha avuto luogo in un sito nei pressi della regione di Piedra Roja, in quello che la sedimentologia – la scienza dei sedimenti geologici – definisce un “cono alluvionale” o “conoide di deiezione”. Un canale di accumulo a forma di ventaglio che circa cento milioni di anni fa era il delta di un fiume, oggi situato nel bel mezzo del nulla. Qualcosa di analogo all’altopiano nel cratere Jezero su Marte, che il rover Perseverance della Nasa sta esplorando dal febbraio 2021.

Microbiomi oscuri

«Ho passato gli ultimi vent’anni a studiare il deserto di Atacama, scoprendo e dimostrando come la vita sia capace di adattarsi a condizioni climatiche estreme», spiega a Domani Azua-Bustos, che di lavoro fa il microbiologo presso il centro di Astrobiologia di Madrid e da oltre quindici anni collabora con la Nasa. «Tempo prima avevo effettuato alcune analisi mineralogiche. Avevo scoperto che la tonalità rossa della pietra dipende dalla presenza di un minerale, l’ematite, lo stesso che dà il colore alla superficie di Marte».

Come riportato nello studio pubblicato su Nature, il 9 per cento dei frammenti genetici ritrovati dal ricercatore e dal suo team appartiene a organismi sconosciuti alla scienza, motivo per il quale è stato rinominato «microbioma oscuro». Si tratta di batteri «così strani e diversi», come scritto nel paper, che non è stato possibile identificare alcun parente noto.

«Per la maggior parte delle sequenze che sono state individuate in questo dna non è stato trovato un corrispettivo codice identificativo già registrato», prosegue Bustos. In altre parole, neanche i database genetici sono stati in grado di dire cosa gli scienziati avessero effettivamente tra le mani. Una traccia di presenza biologica, in ogni caso, era stata rinvenuta.

Campioni marziani

Per questo, il lavoro svolto in Pietra Roja rappresenta un passo in avanti anche per la ricerca di vita su Marte, che da sempre stuzzica gli astrobiologi. Al tempo stesso, sottolinea le difficoltà di individuare microfossili o simili nei suoli marziani senza riportare campioni sulla Terra, in quanto gli strumenti presenti sugli attuali rover operativi della Nasa, Perseverance e Curiosity, sarebbero capaci a malapena di rilevare le firme microbiche (i due veicoli hanno già trovato tracce di molecole organiche sulla superficie di Marte, che però non dimostrano alcuna origine di tipo biologico).

«È emerso quindi un grande interrogatorio: quali strumenti inviare così lontano per effettuare le tecniche di analisi adatte? Molte delle attrezzature “rapide” presenti sui rover attuali non sono probabilmente in grado di rilevare nulla, sono necessarie strumentazioni molto avanzate per vedere anche solo un po’ (di microrganismi, ndr). È stata una scoperta inaspettata per noi. Dopo che la questione è stata sollevata ne hanno parlato tutti, persino la Cnn», conclude Azua-Bustos.

Tempo al tempo, a ogni modo. Le rivelazioni degli ultimi anni hanno rafforzato le strategie di esplorazione intraprese dalla Nasa e dal suo partner, l’Agenzia Spaziale Europea, entrambe impegnate nella campagna “Mars Sample Return”. L’obiettivo della missione è chiaro: salvo imprevisti, i campioni di roccia e polvere estratti dal suolo marziano saranno riportati sulla Terra all’inizio del prossimo decennio per essere esaminati in appositi laboratori. Solo allora, probabilmente, avremo indizi più concreti per rispondere a una delle domande più impenetrabili di sempre: c’è o c’è mai stata vita su Marte?

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