Nonostante venga spesso considerato tale, ChatGPT potrebbe non essere affatto l’avversario più temibile di Google. Il più importante dei motori di ricerca, che oggi detiene circa l’85 per cento di questo fondamentale mercato, deve infatti vedersela con due minacce ben più presenti e pressanti: il peggioramento nella qualità dei risultati mostrati e le nuove abitudini online della Generazione Z.

ChatGPT su Bing

Partiamo però dall’inizio: lo scorso febbraio, Microsoft ha annunciato la volontà di integrare nel motore di ricerca Bing (8 per cento circa di quota di mercato) l’ormai celebre ChatGPT. Creato da OpenAI grazie anche ai finanziamenti di Microsoft (che recentemente ha investito altri dieci miliardi di dollari nella società fondata da Sam Altman), ChatGPT è il software di intelligenza artificiale in grado di rispondere in maniera spesso coerente a qualunque domanda o richiesta gli venga posta.

Subito dopo l’annuncio, si è iniziato a discutere di come la combinazione di ChatGPT e Bing potrebbe porre una seria minaccia a Google, dando vita a un motore di ricerca con cui interagire in maniera colloquiale e rendendo così più fluido e immediato il nostro rapporto con questi strumenti.

In realtà, la minaccia posta a Google dall’intelligenza artificiale creata da OpenAI è – almeno per il tempo a venire – ampiamente sovrastimata. Per quanto sia in grado di setacciare il suo database e rispondere nella maniera che ha la maggiore probabilità di essere coerente con la richiesta, ChatGPT non ha comunque modo di sapere se le sue risposte hanno senso oppure no, se sono corrette o sbagliate, se sono reali o inventate.

«La sua abilità nel fabbricare stupidaggini è stupefacente», ha chiosato il programmatore di machine learnig Jiang Chen parlando con Wired.

Allo stesso tempo, sarebbe assurdo sottovalutare la capacità di Google – pioniera del settore e proprietaria di DeepMind, il più importante laboratorio di ricerca sulla AI – di dare vita alla sua versione di ChatGPT. Anzi, Google ha già a disposizione sistemi, come LaMDA o Bard, che potrebbe integrare nel motore di ricerca.

Visti i tanti errori inevitabilmente commessi da questi strumenti (ed essendo una società quotata in borsa e non una rampante statup come OpenAI), Google si era però, fino a questo momento, mossa con massima cautela.

Minaccia reputazionale

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Ciò che è avvenuto quando Google si è sentita costretta a reagire al rumore mediatico creato da ChatGPT ha dimostrato quanto quella cautela fosse giustificata. In un video promozionale diffuso il 9 febbraio – in cui doveva dare prova delle sue capacità – il già citato Bard ha commesso un grossolano errore, costato immediatamente ad Alphabet (la casa madre di Google) circa 100 miliardi di dollari in valore di mercato.

Tutto ciò, comunque, non significa che in futuro sarà impossibile integrare le intelligenze artificiali conversazionali nei motori di ricerca: «Un modo per rendere più accurati i riassunti creati dagli algoritmi è quello di offrire citazioni», ha spiegato Margaret Mitchell, esperta di etica dell’intelligenza artificiale, parlando con la MIT Tech Review.

«Collegare il materiale alle fonti utilizzate permetterebbe agli utenti di comprendere meglio da dove vengano le informazioni. Ciò potrebbe anche aiutare le persone a ricevere punti di vista diversi, spronandole a considerare più fonti di quanto altrimenti avrebbero fatto».

È comunque abbastanza evidente che, nel momento in cui questi sistemi dovessero esplicitare le fonti impiegate e incentivare a consultare più fonti, diventerebbero quasi indistinguibili dagli strumenti tradizionali utilizzati oggi.

Insomma, per Google la minaccia posta da ChatGPT è al momento più che altro reputazionale: nonostante il colosso di Mountain View abbia giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo del deep learning, oggi è infatti costretto a guardare mentre OpenAI e Microsoft conquistano tutti i titoli. La partita per dare vita alla prossima generazione di motori di ricerca è però ancora tutta da giocare.

Calo della qualità

Potrebbe invece essere molto più complesso rimediare a un altro danno reputazionale che sta colpendo Google: l’impressione riportata da moltissimi utenti che i risultati del suo motore di ricerca siano in costante peggioramento. È davvero così? Di sicuro, soprattutto per alcune ricerche, sembra ormai impossibile sfuggire alla marea di risultati “sponsorizzati”, in cui quindi a determinare il posizionamento non è la qualità del contenuto, ma i soldi versati a Big G.

Tra caroselli a pagamento, link sponsorizzati, box generati automaticamente che riportano ricerche affini (spesso inutili e ridondanti) e altro ancora, prima di riuscire a individuare qualcosa di significativo si rischia di arrivare in fondo alla pagina. «La qualità delle ricerche è migliorata soprattutto tra il 1998 e il 2007, quando ancora c’era della concorrenza», ha spiegato Rand Fishkin, fondatore della società di web marketing SparkToro. “Da allora, la più grande innovazione portata da Google è stata di mettere sempre più prodotti sponsorizzati in cima ai risultati”.

A tutto ciò, Google ha ribattuto affermando che il numero di annunci sponsorizzati non aumenta da anni e che l’ottanta per cento delle ricerche compiute non ha alcuna pubblicità (molto dipende infatti dal tipo di ricerca). Per quanto invece riguarda la qualità dei contenuti mostrati, è innegabile che negli ultimi cinque-dieci anni Google abbia fatto un ottimo lavoro nel ridurre drasticamente la visibilità di teorie del complotto, negazionismi, disinformazione, ecc. che un tempo lo infestavano.

C’è però un altro fronte che sembra essere sfuggito al controllo del motore di ricerca: la seo, acronimo che sta per search engine optimization e indica l’ottimizzazione dei contenuti in modo da far conquistare loro le prime posizioni su Google. Si tratta di tecniche soprattutto editoriali (usare certi titoli o paragrafi, certe parole, in certe posizioni, ecc.) che, se sfruttate correttamente, aiutano le persone a trovare ciò che cercano.

Quando se ne abusa, invece, il risultato è che l’utente si ritrova di fronte a una marea di pseudo-contenuti che sembrano generati automaticamente (anche se spesso non lo sono), indistinguibili l’uno dall’altro, quasi illeggibili per la quantità esorbitante di parole chiave utilizzate e per la loro scarsissima qualità informativa. E così, trovare informazioni o consigli rilevanti è diventata un’impresa.

Teoricamente, Google scoraggia l’abuso della seo. Eppure, la pessima qualità di moltissimi dei contenuti che riescono a piazzarsi in cima a Google è sotto gli occhi di tutti. Basta cercare, per esempio, qualche suggerimento di stampo domestico, finanziario o informatico per poi trovarsi di fronte a una marea di elenchi superficiali, articoli tradotti automaticamente, contenuti uno identico all’altro, ecc. ecc.

Abitudini Gen Z

Ed è forse anche per questo – venendo all’ultimo e forse principale ostacolo che Google dovrà fronteggiare – che le nuove generazioni sembrano star rapidamente cambiando abitudini di ricerca. Secondo uno studio della stessa Google, «quasi il 40 per cento dei giovani, quando cercano per esempio un posto in cui mangiare, non vanno su Google Maps o sul motore di ricerca. Vanno invece su TikTok o su Instagram», ha spiegato il vicepresidente di Google Prabhakar Raghavan nel corso di una conferenza tenuta lo scorso luglio.

Per chi è cresciuto assieme a Google, è difficile anche solo immaginare come si possa fare una ricerca di questo tipo su Instagram o su TikTok. In realtà, potrebbe sorprendere scoprire come il meccanismo non sia poi così dissimile: il New York Times ha portato l’esempio di una ragazza di 15 anni in cerca di consigli relativi alla stesura di lettere di raccomandazione in ambito scolastico. Invece di andare su Google, ha usato le stesse parole chiave nel sistema di ricerca di TikTok trovando due brevi video, fatti appositamente da insegnanti, che davano i consigli cercati.

Lo stesso vale per i ristoranti: cercare su TikTok i luoghi migliori in cui mangiare in un determinato quartiere permette di visualizzare video girati e commentati direttamente sul posto, in grado quindi – secondo gli utenti del social – di catturare meglio l’ambiente e l’esperienza offerta. «TikTok sta diventando una destinazione obbligata per contenuti per i quali non era stato inizialmente pensato», ha spiegato sempre al New York Times Lee Rainie, responsabile per i temi digitali del Pew Research Center.

Da questo punto di vista, a porre un rischio esistenziale per Google non sembrano essere i motori di ricerca che provano a rialzare la testa dopo aver subito per decenni il suo dominio. Il vero pericolo è che le nuove generazioni usino i motori di ricerca sempre di meno.

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