La cronaca nera è quasi un luogo fisico, frequentato a mo’ di proverbiale selva oscura più per il gusto del brivido che per quello dell’informazione. Un grande mistero a essa legato è la facilità con cui la si abbandona, considerandone i protagonisti più come “casi” che come esseri umani.

Quando si parla di cronaca nera si parla infatti di morti, ma non di morte. A fine gennaio gli schermi televisivi, i giornali e le bacheche dei social si sono riempiti dei giovanissimi volti di persone decedute tragicamente. Il modo in cui le notizie sono state trattate, e la rapidità con cui si è superato l’argomento senza – per l’ennesima volta – affrontarlo sul serio, sono i motivi per cui ho contattato Davide Sisto: filosofo, tanatologo e docente universitario.

Sisto ha pubblicato due saggi sulla morte digitale. Con i suoi lavori è stato il primo in Italia a introdurre i temi del lutto online e delle nuove frontiere dell’immortalità. Frutto di almeno tre anni di ricerche in tema di digital death, il libro La morte si fa social (Bollati Boringhieri, 2018) sonda sia i tentativi di renderci immortali che la gestione della morte online. «All’epoca» spiega «quando nelle conferenze parlavo di funerali in streaming mi guardavano come un pazzo blasfemo. Ma queste pratiche, arrivate da noi con prepotenza insieme alla pandemia, nel mondo britannico esistevano già da tempo, utilizzate ad esempio da emigrati privi delle possibilità economiche per tornare a casa e assistere alla funzione».

Il saggio Ricordati di me (Bollati Boringhieri, 2020) si concentra invece sul rapporto tra memoria e oblio in epoca digitale. L’assunto esposto da Sisto è che «Il web ha come caratteristica la registrazione. Se ogni contenuto può rimanere all’infinito si verifica una costante sovrapposizione tra presente e passato, e si modifica ampiamente il nostro modo di modificare i ricordi. Secondo Kennet Goldsmith i social sono dunque un esperimento di autobiografia culturale collettiva, un nuovo modo di scrivere insieme agli altri. L’altra faccia della medaglia è che limitano la possibilità di essere dimenticati là dove, tutto sommato, un po’ di oblio non fa male a nessuno».

Educazione alla mortalità

Il 22 gennaio una bambina di dieci anni, in provincia di Palermo, muore soffocandosi accidentalmente con la cintura di un accappatoio. Pochi giorni dopo, a Bari, un fatto analogo coinvolge un bambino. In entrambi i casi pare che le vittime stessero cercando di seguire una sfida lanciata da TikTok. Ogni testata ha coperto queste vicende evidenziando l’esigenza di un controllo sull’uso di social network e device tecnologici da parte di minori. In nessun caso vi è stato un riferimento ponderato alla necessità di spiegare la morte ai bambini, o meglio ancora a tutti. Perché snobbare in modo così smaccato la mancanza di un’educazione alla mortalità? Spesso si è letto «hanno tentato di sfidare la morte», ma come si fa a sfidare qualcosa che non si conosce?

Davide Sisto conferma che «c’è un grandissimo problema sul piano educativo in Italia, i responsabili dell’istruzione spesso sono molto conservatori. Proporre dei corsi per insegnare anche ai piccoli cosa sia la morte comporta perlopiù essere guardati come se si volesse attentare alla loro salute, ma non c’è nulla di male nello spiegare a un bambino delle elementari, con i linguaggi adatti, che si muore», quello di pensare che la coscienza della mortalità corrisponda a un trauma è un problema di noi adulti. L’adulto medio e sano, nel suo percepirsi individuo compiuto e integro, sembra non perdonare la debolezza insita nei più naturali dei fenomeni: l’infanzia, la gioventù, la malattia, la morte. Di qui lo stigma, l’allontanamento da sé, ma anche il rifiuto di abbracciare compiutamente il proprio ruolo di guida.

Secondo Sisto il giudizio che spesso pende sui giovani e le loro abitudini è una forma di ipocrisia: «Da una parte adolescenti e bambini sono guardati male, ogni loro forma di esibizione viene tacciata di infantilismo. Dall’altra si pretende che giovani e giovanissimi siano già maturi, che da soli sappiano come funziona il mondo senza che nessuno glielo debba spiegare». Dalla malattia, alla morte, alle dipendenze, al sesso gli adulti ritengono che parlandone ai più piccoli questi possano essere influenzati negativamente. «Ma un bambino ha bisogno di capire come funziona il mondo» conclude Sisto «e più l’educatore è bravo, più quello diventerà un adulto capace di affrontare le difficoltà».

Identità fisica e digitale

Torniamo alla cronaca, torniamo a fine gennaio. Il corpo di una ragazza di 17 anni viene trovato in un burrone, è stata assassinata, ci sono segni di bruciature, il fidanzato è il principale indiziato. Le foto di entrambi, come di consueto, sono ovunque. Davide Sisto spiega che tra le questioni cardine legate a fatti di cronaca nera c’è anche quella della gestione dei contenuti digitali: «I giornalisti che utilizzano fotografie e post tratti dai profili social, magari affermando che dopo tutto siamo nell’epoca dell’immagine, tradiscono che non c’è chiarezza sul tema. Quelle foto sono parte della nostra identità, non si può usare tutto. Basti pensare che i professionisti dell’informazione non entrano nella casa di un morto a prenderne gli oggetti per farli vedere». Non sono dunque solo i più giovani a necessitare di un’educazione all’uso degli strumenti digitali, ma anche gli adulti: «Bisogna imparare che i corpi digitali non sono meno importanti e unici di quelli fisici».

Considerando invece i contenuti, le notizie di morti violente sono sovraesposte in un contesto in cui di morte in realtà si parla pochissimo. «Io non penso» dice Sisto «che le morti violente non siano percepite come morti, bensì come fatti violenti. Colpiscono la prurigine, la corda, il fuoco, e di conseguenza sono rappresentazioni che ci allontanano dalla concezione della morte perché parlano d’altro». Altro fenomeno che andrebbe valutato è quello delle reazioni che si scaricano sui profili social sia delle vittime che dei carnefici, spesso provenienti da centinaia di utenti sconosciuti. «Lì si riversano auguri di morte, dolore fisico, pieni di una violenza spaventosa. A prescindere dai giudizi occorrerebbero degli accorgimenti, come l’oscuramento immediato dei profili, che evitassero spirali di violenza e di odio dannosi per tutti».

La rimozione della nostra natura

L’argomento è estremamente delicato, e il dibattito non va scaricato sui dolenti, né è da intendersi come critica a sistemi educativi legati all’ambito famigliare o al singolo educatore. La rimozione è infatti sistemica e alimentata da media che nell’esposizione dei fatti, non di rado, mancano il punto indulgendo in una narrazione da macelleria del sentimento. In questo senso Sisto spiega che il problema della rimozione «non è certo solo italiano, ma sicuramente molto più presente nell’Europa meridionale che in quella del nord, più legata alla cultura protestante. Parlando di questi temi mi piace però sottolineare le nostre stesse incongruenze: la società di massa, specie urbana, rimuove la morte, mentre in provincia e nei piccoli centri un culto e una consapevolezza ancora esistono. Questo crea un cortocircuito interessante, dove l’elemento localistico è obnubilato da un sentire più comune, pubblico, in cui guai a dire che una persona è morta di tumore. Questo offuscamento appare evidente con il numero dei morti da Covid che, ogni giorno di più, perde di significato. Non fa effetto, non induce alla riflessione, anzi sbuffiamo perché forse ci limita. È molto triste che sia subentrata l’assuefazione e che quello che poteva essere uno spunto –purtroppo tragico – per affrontare il tema, sia stato immediatamente riassorbito all’interno del processo della rimozione».

Dalla cronaca nera alle vittime della pandemia, il comune denominatore resta sempre quello della rimozione della nostra natura mortale, tanto più dannosa quanto più coinvolge la rimozione di tutte le nostre debolezze, «A livello sia mediatico che politico si dimentica che la popolazione è composta da singoli individui, con singole storie, che implicano un coinvolgimento emotivo e psicologico. Non siamo automi né una massa indifferenziata, e ognuno sta subendo contraccolpi importanti da questa situazione. Ecco di nuovo perché non si parla di morte, di elaborazione del lutto, di sofferenza». Ecco perché la disabitudine a parlare di morte ci rende così impacciati quando proviamo a farlo, quasi stessimo maneggiando storie di bambole rotte anziché di persone.

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