Che ne è del “think different”? L’antico slogan del computer con la mela sembra scomparso da secoli. Era il paradigma del mondo tech nel suo stato nascente: anticonformista, visionario, disruptive. Farfalline tecno-utopiche nella pancia. 

Anni dopo, advertising dopo advertising, l’azienda della mela oggi si promuove con un filmato che vediamo come pre-roll sui video di YouTube. Non è un filmato allegro. Un tizio in un bosco inciampa e cade, viene ritrovato grazie al messaggio del suo I-orologio. Il primo claim era basato sull’entusiasmo, l’ultimo storytelling è basato su un appello alla sicurezza. L’appello alla sicurezza è una modalità della paura.

È da notare, anche, l’umore giornalistico che circonda ogni nuova notizia riguardo al metaverso di Zuckerberg, iper investimento da dieci miliardi di dollari l’anno.

Un’inchiesta del Financial Times ha frugato tra i brevetti depositati da Meta, trovando le ennesime soluzioni invasive per la privacy. Ad esempio il riconoscimento delle espressioni facciali involontarie, che servono sia all’interazione, sia alla profilazione: altro esempio di come anche gli sbalzi d’umore finiscano nel pentolone impescrutabile (profittevole) dei big data.

E qui emerge il tema controverso quanto si vuole, ma è l’elefante nella stanza: i rischi tecnologici per la dimensione privata. Un problema che si pone anche per gli stati, ammesso che si vogliano definire liberali. Altra cosa da notare: in queste settimane il libro che sta animando la discussione sulla tecnologia è “The Loop” di Jacob Ward. Sottotitolo: «Come la tecnologia sta creando un mondo senza scelte. E come resistere».

Gli ex entusiasti 

A oggi, 2022, l’anti tech è diventato mainstream, e anche i più entusiasti della tecnologia si confrontano col noto problema.

Qualche settimana fa il direttore di Wired, Gideon Lichfield, presentava la nuova edizione del mensile con un appello al pensiero non binario. Tutto ciò, sullo stesso giornale, per intenderci, che solo pochi anni fa (2008), aveva sostenuto in un articolo dell’allora direttore Chris Anderson, che il metodo scientifico era obsoleto, che alla scienza non servivano più modelli teorici, bastavano un numero sufficiente di dati (più che terabyte, petabyte). La correlazione data da caso e statistica avrebbero fornito i risultati, secondo le teorie di Peter Norvig, direttore della ricerca di Google, e del biotecnologo (e businessman) Craig Venter. 

Nel suo editoriale su Wired, Lichfield ammette che la tecnologia ci ha dato piazza Taharir, ma anche il tecno-controllo alla cinese; la blogosfera ma anche la “manosphere”; il maschilismo stile Incel; le opportunità economiche della “coda lunga”, ma anche gli umiliati e offesi della gig economy; i vaccini mRna, ma anche i bambini geneticamente ritoccati. 

La soluzione secondo Lichfield è avere la capacità di accogliere un pensiero complesso, accettare l’idea che la tecnologia sia buona e cattiva allo stesso tempo. Lichfield cita Francis Scott Fitzgerald: «Una persona intelligente deve essere capace di comprendere idee opposte simultaneamente, e continuare a funzionare». 

Be’, «l’essere si dice in molti modi», giusto, ma il fatto che una pubblicazione da sempre spinta verso un’illimitata fiducia nella tecnologia faccia un appello verso il pensiero non binario sembra una ritrattazione. La tecnologia, dall’invenzione del semiconduttore in poi, è binaria. 

Modernità liquida

La tecnologia universalizzata con internet è nata alla fine degli anni ‘90 in epoca post storica, di “modernità liquida”, quando si pensava che la globalizzazione avrebbe spento conflitti storici e interessi locali. Ed è nata con un carattere postmoderno (Lyotard): rottura delle grandi narrazioni, conflitto produttivo di significati, euforia rappresentativa, serendipità cognitiva. 

Di qui l’aria fricchettona dei vari internet-guru (una volta, a Roma, chi scrive ha visto Jaron Lanier dopo una conferenza, seduto in terra, al buio, i capelli sulla panza, si tagliava le unghie dei piedi), le piccole narrazioni dei pascoli creativi comuni, il peer to peer (sia nel senso del review sia in quello dello sharing). La polifonia narrativa di internet. Appunto, il “think different”. Solo che la tecnologia, e la sua universalizzazione, la rete, non sono più così. 

Dagli anni ’90 sono successe molte cose. Innanzitutto il ritorno (come sempre) doloroso della Storia. Culturalmente, il postmoderno è finito. Da un paio di decenni è l’ora dell’ipermoderno spiegato da Gilles Lipovetsky, analizzato  anche da Massimo Recalcati, fatto di una infinita nostalgia di identità e da bisogno di rassicurazione.

Artificiale, impossibile, ma il cui desiderio è potenziato da una parte dall’insicurezza generale, dall’altra dal mercato globale. E da internet, con le sue polarizzazioni e odi social, con gli identitarismi politici (di destra, di sinistra) antipolitici (populismi), esistenziali (bolle feticiste).

Postmoderno e ipermoderno

Culturalmente, come mood epocale, il postmoderno – epoca di benessere –  corteggiava catastrofi con spirito beffardo, l’ipermoderno – epoca di malessere – cerca disperatamente, e litigiosamente, rassicurazioni narcisiste.

Il postmoderno sollecitava la crisi per guadagnare un quantum di senso riflessivo, l’ipermoderno brama la sicurezza – da questo punto di vista l’epidemia del Covid non ha cambiato granché, ma ha rivelato la tendenza dello spirito del tempo – e vabbè, tutti abbiamo bisogno di un abbraccio, anche da noi stessi. Da punto di vista rappresentativo: il postmoderno tende alla narrazione polifonica, l’ipermoderno alla narrazione monologica. 

Non è un caso se il “nuovo” internet non è più quello dei fricchettoni nerd, dei geek, di Napster, dei Torrent, dei blog, né tantomeno quello politicamente eversivo di Wikileaks.

Questo internet avventuroso delle origini è semmai il rimosso, e si è spostato sul dark web. Internet mainstream di oggi è quello delle piattaforme stabili e statutarie: non c’è politicamente differenza se i miei dati li avrà Google o lo stato.

Dovrebbe esserci, forse, ma non c’è. Internet 2.0 o 3.0 o 4.0 si è già evoluto e sempre più si evolverà dalle smart tv alle smart cities. Risponde a esigenze di business cercando di fornire identità (almeno finta) e sicurezza (almeno apparente).

Dal punto di vista economico il patto è chiaro. Lavoro permanente sotto forma di engagement permanente: fornirò dati facendo andare l’asciugatrice. In cambio avrò una ampia serie di servizi e, si spera, una certa dose di sicurezza. O almeno rassicurazione.  

Attraverso cosa? Attraverso alcuni media. Che però si negano come media. Si presentano come ambienti omnicomprensivi, “naturali”. Come notava Maurizio Ferraris nel suo Metafisica del web non ha più senso parlare di Infosfera, né di Information technology, ormai si tratta della vita che viene assorbita dalla dimensione “documediale”. Il che è meglio che abbrutirsi per l’uso smodato dello ‘zzappone, se in cambio vengono assicurate alcune cose. 

Il format

Forse la cosa da notare e a cui Ferraris non sembra fare cenno è che il format, il medium, quanto meno si sceglie quanto più c’è. 

E retroagisce sugli utenti, anzi sui partecipanti, sui partner. Come tutti i format, ha poteri di indirizzo. E non si parla di Grandi fratelli, ma di modelli e tic linguistico-simbolici.

I linguaggi di Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, portano già da tempo a usare la rappresentazione (o a esserne usati, come sempre succede) in un certo modo: in letteratura, film, musica, pubblicità, linguaggio.

Qualche esempio a braccio: l’autofiction, la fotografia iperrealista, l’approccio emotivo (amore incondizionato/odio furioso), l’empatia, l’assenza di (auto)ironia, la retromania, l’invettiva “morale”, sono alcuni punti della vague ipermoderna.

Dove il postmoderno scappava dal soggetto, confondeva tra immagine e frattura dell’immagine, era anti emotivo, antipatico, ironico, ludico con le epoche storiche, equivoco con la morale. 

Come punto di vista alternativo al potere dei format è interessante la posizione  di Pietro Montani, che teorizza che le facoltà umane siano già-sempre «esternalizzate» e che la risposta tecnologica a questa caratteristica sia nel crossmediale. Non fosse per il fatto che tutti i format tendono a “tenere dentro” l’utente il più possibile. Anche la crossmedialità implica una dépense.

Sempre più difficile. Perché l’azione del format ha un altro potere decisivo non dichiarato: la configurazione del tempo. Il tempo tecnologico è il tempo della pura ripetizione. Quello umano è il tempo della finitezza, delle decisioni da prendere una volta per tutte.

La retroazione del tempo tecnologico su quello umano tende alla compulsività, a un fort-da freudiano a scansione sempre più ravvicinata. Chiunque sia mai stato nella vita in una chat, o abbia guardato cinque (o tutte le) stagioni di una serie tv in una notte, o sia rimasto attaccato alle notizie per mesi durante il lockdown del 2020 o su Twitter per tre giorni durante l’elezione del presidente della Repubblica,  potrà pacatamente convenire su questa esperienza di coscienza infelice ipermoderna, fatta da un tempo (apparentemente) troppo disponibile e da un io pure.

Infine, l’apocalissi come stato d’animo è un impraticabile spavento senza fine. Ma un quantum di disillusione per la tecnologia, o almeno camminare sulla linea sottile che divide il boomer dal bimbominchia è un esercizio di «pensiero non binario». Forse. 

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