Fino a pochi anni fa la parola “resilienza” era di esclusivo uso tecnico, “adattamento” di pertinenza scientifica e “prevenzione” di utilizzo in ambito sanitario.  Il progredire della crisi del clima e degli ecosistemi, la pandemia, la forte necessità di prepararsi a futuri scenari (preparedness), hanno prodotto una crescita progressiva dell’uso delle tre parole: a dismisura quello di resilienza, notevole quello di adattamento, discreto quello di prevenzione.

Resilienza e fragilità

Il termine resilienza è mutuato dalla tecnologia dei materiali, inteso come resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto. La resilienza intesa come capacità di reagire all’urto è misurabile con un indice di resilienza, il cui inverso è l’indice di fragilità.

Questa breve premessa consente qualche prima riflessione in cascata:

  • in primis, non andrebbe confusa la capacità di reagire ad un urto con l’obiettivo di evitarlo;
  • non ci sono dubbi che sia in corso una enorme sollecitazione; dinamica a tutti i livelli della vita del pianeta e degli esseri viventi;
  • le prove d’urto non mancano, basti ad esempio l’elenco degli eventi meteorologici estremi;
  • la resilienza è un concetto senz’altro appropriato, ma…..

Se l’indice di resilienza e l’indice di fragilità sono inversamente correlati tra loro ne consegue che per aumentare la capacità di resilienza occorre ridurre la fragilità, ma per ridurre la fragilità di persone e popolazioni occorre migliorare il loro stato sociale e sanitario, un obiettivo che si può raggiungere con la prevenzione più che con la cura, un argomento su cui torniamo più avanti. Inoltre, c’è un altro tema cruciale perché poco trattato ma molto importante quando si discute di adattamento: nel mondo vivente non c’è la possibilità di riacquisire completamente lo stato esistente prima del cambiamento, ma di questo parleremo un’altra volta.

Adattamento: un concetto complesso da trattare con cura

Adattamento è una parola che ha molti significati diversi se usata in ambiti diversi, ed è troppo spesso usata in modo generico o con troppa disinvoltura. Andrebbe evitato di confondere tra le necessarie misure di adattamento per proteggere la salute delle popolazioni dai ben documentati rischi da cambiamenti climatici (piani di adattamento insufficienti, contraddittori e con applicazione troppo lenta), e i richiami generici verso le persone alla necessità di adattarsi alle modifiche che vengono avanti, senza distinguere tra necessità e possibilità effettiva di adattamento. A proposito della lentezza, va detto che il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) è ancora in fase di lunga gestazione, la maggior parte del documento principale è su elementi definitori e normativi e meno di 1/5 è dedicato alle azioni da realizzare, peraltro con scarse indicazioni di costi e tempi.

Mentre non serve fare genericamente riferimento a uno spirito di adattamento a nuove condizioni e situazioni è delicato parlare di adattamento come capacità di modificazione degli organismi al variare delle condizioni ambientali. In questo contesto si parla di adattamento fenotipico e genotipico.

Il primo riferito a processi individuali o collettivi attraverso modifiche fisiologiche e morfologiche che non sono trasmesse ai discendenti.

Il secondo riguarda cambiamenti genetici a livello di popolazione che, attraverso il meccanismo della selezione naturale, possono essere acquisiti della specie o anche dare luogo a un processo evolutivo che può portare alla formazione di nuove specie (fenomeni di speciazione).

Il complesso dei fenomeni biologici che si verificano in un organismo per effetto dell’azione di stimoli dannosi (infezioni, traumi, fatica, emozioni, raffreddamento o surriscaldamento, etc.) è definito sindrome generale di adattamento, per indicare la risposta che l'organismo mette in atto quando è soggetto agli effetti prolungati di molteplici fattori di stress derivati da stimoli mentali, fisici, sociali, ambientali.

Dagli adattamenti diciamo più “alla portata” a quelli più ostici c’è sempre bisogno di un lasso di tempo per adattarsi: un fattore questo che spesso viene trattato come secondario o addirittura perso per strada, anche nella pianificazione.

Da queste sintetiche definizioni spero che emerga la complessità concettuale di “adattamento” e la conseguente necessità di evitare di trattarlo con troppa disinvoltura e di fare confusione.

Dunque, piani di adattamento basati su azioni mirate a ridurre le vulnerabilità ai cambiamenti climatici, in accordo con la strategia EU finalizzata ad accrescere la conoscenza degli impatti del clima e le soluzioni, promuovere la valutazione dei rischi e accelerare le risposte e le azioni di emergenza. 

Per riassumere, i richiami generici alle persone ad adattarsi, o gli inviti ad assuefarsi, non sono solo sbagliati ma anche pericolosi, poiché distolgono dalla ricerca delle responsabilità vere e delle relative azioni efficaci da intraprendere.

L’adattamento all’attenzione dell’IPCC

In ambito scientifico c’è consapevolezza sulla delicatezza del concetto di adattamento, e gli scienziati del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), avevano messo l’argomento al centro del 6° rapporto di valutazione dedicato alle strade da percorrere per non farsi trovare impreparati dalla nuova realtà. Il Rapporto AR6-IPCC rilasciato nel 2022 parlava di “limiti dell’adattamento” distinguendoli in soft/leggeri e hard/pesanti, dopo avere premesso che gran parte dei cambiamenti innescati sulla Terra dal cambiamento climatico di origine antropica sono irreversibili, ma al contempo che ciò non significa che non c’è più speranza. Infatti, l’IPCC conferma che gli sforzi per mantenere la temperatura globale entro gli 1,5 gradi potrebbero evitare in parte gli impatti più devastanti del cambiamento del clima.

Gli adattamenti “soft” sono riferiti ai limiti che si possono superare o modificare; sono dipendenti da azioni umana, come barriere politiche e intoppi economico-finanziari, e quindi ambiti in grado di essere modificati. Sempre che esista una volontà chiara di cambiare (apparsa invece progressivamente più debole alle varie Conferenze delle Parti o COP che si sono succedute, specie dopo la COP21 di Parigi-2015 fino l’ultima, la COP-27 di Sharm el-Sheikh dello scorso anno.

Gli adattamenti “hard” richiamano la nostra consapevolezza che non sempre ci si può adattare, a causa di limiti biologici che non possiamo oltrepassare, se non in tempi ormai incompatibili con i fenomeni in atto. Ad esempio, il corpo umano è in grado di sopportare solo un certo innalzamento della temperatura esterna e non è in grado di adattarsi a ondate estreme di calore, che pertanto vanno prevenute o mitigate per altre vie.

Prevenzione da rafforzare

Da quanto detto su resilienza/fragilità e sull’adattamento dovrebbe derivare la centralità della prevenzione, finalizzata sia a rimuovere o mitigare le cause di malattie dovute all’inquinamento e al cambiamento climatico (prevenzione primaria) – con al primo posto le combustioni di combustibili fossili che surriscaldano e inquinano – sia volta a raggiungere più precocemente possibile una diagnosi di malattia quando questa è ancora in una fase asintomatica (prevenzione secondaria). Per inciso, ma non meno rilevante, gli screening fondamentali, ormai disponibili per tante malattie, sono drammaticamente diminuiti negli ultimi anni e secondo una chiara distribuzione per classe socio-economica.

Sono inoltre da non trascurare le politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici (pensiamo alle isole di calore nelle nostre città) che sono in grado di portare notevoli co-benefici sull’inquinamento e sulla salute.

Il tempo: il convitato di pietra è il fattore cruciale

Mentre la scienza è allineata sull’importanza del fattore tempo per fermare la corsa al riscaldamento climatico, quando si parla di adattamento, ma anche di resilienza/fragilità e di prevenzione, proprio il decorso del tempo e la sua irreversibilità sono spesso trascurate o sottovalutate, come se fossero - variabili ininfluenti o modificabili a nostro piacimento. La riflessione è aperta anche per i grandi gruppi industriali e finanziari che hanno programmato uno sviluppo basato su tempi non più sostenibili.

In conclusione, i tre concetti di resilienza, adattamento, e prevenzione, oltre che ben spiegati andrebbero collegati in modo intelligente: certo non confusi, un cocktail al massimo da agitare ma non da mescolare, per dirla col famoso agente 007.

Su questo ci sono impostazioni diverse anche tra ambiti scientifici diversi. C’è chi pone – forse per urgenza o forse perchè non scevro da precisi interessi, la resilienza e l’adattamento al centro del modello concettuale intorno al quale ruotano le altre varie attività da svolgere, tra le quali anche la prevenzione. C’è chi, come il sottoscritto – si sarà capito – vede la prevenzione al centro con ad essa collegate le attività facilitanti della resilienza e dell’adattamento.

La differenza tra queste due impostazioni non è di poco conto in termini di priorità programmatiche e di risorse da allocare, in tutti i settori implicati nelle cause dell’inquinamento, dall’industria all’agricoltura, fino all’ambiente e alla sanità.

Su questi temi ci attende un imponente attività di alfabetizzazione rivolta ai cittadini e di loro coinvolgimento in co-produzione e co-progettazione (non basta la consultazione!), per arricchire le conoscenze teoriche e pratiche e aumentare l’efficacia delle stesse azioni programmate.

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