Nel 2011, sette anni prima che Greta Thunberg cominciasse a sedersi con un cartello davanti al parlamento svedese, un ragazzo tedesco di appena tredici anni, Felix Finkbeiner, si rivolse all’Assemblea Generale delle Nazioni unite scagliandosi contro la miopia dei politici: «Se a una scimmia fai scegliere tra una banana adesso, o sei banane più tardi, la scimmia vorrà sempre la banana adesso». Poi lanciò una sfida globale semplice e ambiziosa: piantare un trilione di alberi entro il 2050. Seguirono applausi, foto, strette di mano.

L’obbiettivo di Plant-for-the-Planet, l’associazione di Finkbeiner, può sembrare una cifra approssimativa, ma un articolo di Jean-François Bastin pubblicato da Science nel 2019 ha rivelato che, quando il trilione di nuovi alberi sarà cresciuto del tutto, avrà la capacità di immagazzinare tra i 488 e i 1012 miliardi di tonnellate di CO2: circa un terzo di tutte le emissioni umane di CO2 avvenute fino a oggi. Questi numeri lasciano immaginare che, per invertire la tendenza in corso e arginare il riscaldamento globale, si debba piantare il maggior numero di alberi possibile.

Un comodo «win-win»

Se un tempo era un gesto privato, simbolo di rispetto per l’ambiente, piantare alberi oggi è un’iniziativa capillare di governi, Ong, startup e aziende. Il numero di associazioni che si occupano di riforestazione in luoghi tropicali è cresciuto di circa il 300 percento dagli anni ’90, e le combinazioni sono moltissime: è possibile acquistare alberi insieme ad altri prodotti, ma anche regalarli, o adottarli. Ad essere soddisfatta è un’esigenza di immediatezza: fare qualcosa di buono, farlo subito, e dalla comodità del proprio salotto.

Piantare alberi sembra la classica situazione «win-win»: fa crescere le aziende che vi investono, combatte il cambiamento climatico attraverso la cattura di CO2, e contrasta le disuguaglianze dando lavoro e sicurezza alimentare alle comunità locali. È una narrazione vincente, perché questi fattori ruotano attorno a un’unica grande idea: l’albero come portatore di vita, prosperità e speranza per il futuro. Ma come spesso accade, affidarsi a un simbolo così universale e totalizzante ha portato a semplificazioni e distorsioni.

Sono stati infatti riscontrati alti livelli di fallimento nelle piantagioni di alberi su vasta scala, perché spesso manca uno studio preliminare e un monitoraggio attento dei progetti. Nel 2020, un’iniziativa governativa in Turchia si è aggiudicata un Guinness World Record: più di 300mila piantumazioni in un’ora, per un totale di 11 milioni di nuovi alberi. Tre mesi dopo, il 90 per cento di questi erano morti, perché piantati in un periodo dell’anno in cui le piogge erano insufficienti a sostenerne la crescita.

Un altro esempio è la Grande muraglia verde del Sahara, avviata nel 2007, che doveva essere un megaprogetto di contrasto alla desertificazione, ma si sta rivelando un fallimento su più fronti. Infatti se è vero che, in certi contesti, gli alberi possono facilitare l’infiltrazione dell’acqua nei suoli, in altri casi intercettano e assorbono l’acqua piovana, a discapito di altre piante o dei vicini corsi d’acqua: in Tunisia, la piantumazione di palme da dattero ha inaridito i terreni; anche in Senegal gli esiti sono stati deludenti e, degli alberi piantati nei progetti di riforestazione, solo la metà è sopravvissuta. Il risultato è che nel 2020 la Grande muraglia era completa solo al 4 per cento, con una data di scadenza fissata al 2030.

L’elefante nella stanza

Ma non è soltanto una questione di qualità dei progetti. Le foreste sono ecosistemi delicati e complessi, e tentare di ricrearli artificialmente può rivelarsi non solo inefficace, ma anche dannoso. Per compensare le emissioni di carbonio, il gigante petrolifero francese TotalEnergies ha dato avvio a un progetto di riforestazione di 40mila ettari nella Repubblica Democratica del Congo, in cui acacie australiane vengono piantate nella savana del Bateké Plateau, un’area priva di foreste; ma secondo gli esperti, questo potrebbe avere effetti deleteri sulle risorse idriche e sugli ecosistemi esistenti.

Piantare alberi non autoctoni, o in luoghi dove le foreste non crescono spontaneamente, comporta dei rischi. Se in ambienti umidi e tropicali le riforestazioni sono ottime alleate per abbassare le temperature, nelle zone più fredde e secche, con scarse precipitazioni, gli alberi attirano il calore del sole che invece i prati o la neve sottostanti riuscirebbero a schermare. Inoltre, molti progetti di riforestazione prediligono le conifere perché costano poco, crescono in fretta e hanno una maggiore capacità di catturare il carbonio, ma i boschi di conifere, oltre ad assorbire molta acqua, sono anche i più infiammabili. Basti pensare che nel 2013 in Nuova Zelanda, la New Zealand Carbon Farming piantò 1326 ettari di pini, che innescarono un incendio e distrussero alcune proprietà di agricoltori locali.

Le discussioni sulla creazione di «bacini naturali di carbonio» distolgono l’attenzione dall’elefante nella stanza: 36,7 miliardi di tonnellate di emissioni industriali annuali. Per quanto rapidamente possa crescere, nessuna foresta potrà mai compensarle. È proprio su questo mito dell’equilibrio che si fonda ormai da decenni la compravendita di crediti di carbonio (praticamente delle «autorizzazioni a inquinare» acquistabili in Borsa o tra imprese): nati con il Protocollo di Kyoto, dovrebbero servire a porre un freno alle emissioni, ma di fatto consentono ai grandi inquinatori di continuare a emettere CO2 compensando con strategie di cattura di carbonio. Una di queste è la piantumazione di alberi, spesso orientata verso monocolture su vasta scala perché, essendo ben visibili, veicolano più facilmente un messaggio di sensibilità ambientale.

Guardare oltre la «banana adesso»

Una parte del mondo accademico parla ormai di «tirannia degli alberi». Il fascino simbolico dell’albero e delle foreste è infatti diventata un’arma a doppio taglio, dato che porta a sottovalutare il ruolo che hanno altri ecosistemi di trattenere grandi quantità di carbonio: le savane, le praterie, le torbiere, le steppe confinanti con le zone desertiche, rischiano di esser trattate come foreste degradate da ripristinare, invece di essere custodite come ecosistemi antichi in grado di trattenere grandi quantità di carbonio nel sottosuolo, e dunque degni di protezione e tutela.

La rigenerazione autonoma degli ecosistemi è un percorso meno attraente, ma cruciale. Oggi anche il sito di Plant-for-the Planet presenta un’agenda più strutturata e bilanciata: «La complessità di ricostruire ecosistemi per mano umana implica ancora di più la necessità di proteggere quelli esistenti». La riforestazione da sola non basta e serve un atteggiamento non invasivo nei confronti degli habitat naturali.

L’Italia non è esclusa da questo dibattito. Le azioni di salvaguardia dei territori spesso fanno meno notizia di altre istanze, ma sono numerose in tutto il paese. Un esempio è il progetto Salvarocche, nel Cuneese, un consorzio di quindici associazioni piemontesi che si sta battendo per la difesa delle Rocche del Roero, un autentico polmone verde che si estende per oltre 8000 ettari, lungo una dorsale di 40 chilometri. Questo ecosistema, unico nel suo genere, è minacciato da un progressivo disboscamento e da un’antropizzazione che hanno già coinvolto gran parte del vicino territorio della bassa langa, orientata alla coltivazione vitivinicola e di nocciole.

Se la scelta è davvero di guardare oltre la «banana adesso» e preoccuparsi del futuro della nostra specie, allora le azioni da portare avanti, con urgenza e in parallelo, sono tre: ridurre le emissioni industriali, investire in tecnologie di cattura di CO2, e preservare gli ecosistemi esistenti. Di queste, la terza è l’unica soluzione immediatamente praticabile e in grado di dare risultati certi, ma è anche quella più impegnativa. In una società orientata alla performance e al risultato, cedere il posto alla natura e ai suoi ritmi è la vera sfida del nostro tempo.

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