A fine settembre, New York ha ospitato Climate week, la settimana del clima a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Sono state giornate strane, estive. A New York avrebbe già dovuto essere autunno. Di solito, i venti del Canada raffreddano la città mentre il colore degli aceri di Central Park fa già il verso alle zucche arancioni di Halloween.

Invece, migliaia di attivisti, giacche in spalla, hanno affollato una Manhattan sudaticcia e accaldata, prendendo d’assalto parchi e caffè all’aperto per discutere, con una certa consapevole ironia, dell’emergenza climatica, mentre oltre 190 delegazioni ingorgavano le strade di Midtown per raggiungere il Palazzo di Vetro.

Ma il caldo non era l’unica cosa a essere fuori posto. Lo sembravano anche le decine di riunioni, affollate dalle stesse facce che da anni fanno gli stessi interventi accorati. La veemenza di quelle discussioni, i continui richiami a rischi catastrofici ed estinzioni di massa si sono rivelati ortogonali ai risultati elettorali emersi proprio in quelle settimane.

Sconfitti alle urne

I Democratici svedesi festeggiano il risultato elettorale (AP)

A metà settembre, nella Svezia della giovane attivista ambientale Greta Thunberg, i partiti di centrosinistra, dichiaratisi ecologisti e che avevano retto il governo fino all’estate, non sono riusciti a conservare la propria maggioranza. Dopo lunghi negoziati, il governo è finito in mano a una coalizione di destra che include i Democratici svedesi, nazionalisti e populisti.

I partiti della sinistra svedese sono storicamente dominanti nelle città e tra gli universitari, e parlano il linguaggio delle riunioni di New York. Quelli di destra parlano meno di ambiente e con termini più funzionali a sicurezza e controllo. Hanno prevalso tra le comunità rurali, per le quali la natura del territorio non è un’astrazione globale ma una quotidianità locale.

Lo stesso è successo in Italia. Dopo la disastrosa siccità e con prevedibili catastrofi alluvionali alle porte, ci si sarebbe potuti aspettare un elettorato molto sensibile ai temi ambientali. Per esempio, Senigallia, il comune marchigiano duramente colpito dalle alluvioni di quest’autunno, era minacciato dal fiume Misa sin dal 2014. Ma questo non ha provocato una predilezione per programmi politici sensibili all’ambiente. Anzi, la maggioranza relativa dei voti di Senigallia per la Camera dei deputati è andata al candidato di Fratelli d’Italia, un partito che non ha mai fatto dell’ambiente un tema centrale della propria politica.

Se poi si guarda all’America di Biden, un’amministrazione che ha fatto della lotta al cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale un pilastro del proprio agire, le cose non stanno andando affatto bene. L’Inflation reduction act, approvato recentemente, spinge per una riduzione delle emissioni del 40 per cento in meno di dieci anni. Si tratta della legislazione climatica più significativa della storia americana. Eppure, i democratici faticheranno a mantenere il controllo del parlamento nelle prossime elezioni.

Ragioni di un insuccesso

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Il fallimento dei movimenti politici che mettono l’ecologia e l’emergenza planetaria al centro dei loro valori non è dovuto al fatto che gli elettori non hanno capito. Basta ascoltare le grida degli agricoltori assediati dalla siccità di quest’estate, o quelle degli inondati nelle Marche che, un po’ come gli sfollati del Pakistan, si sono scoperti impotenti di fronte a un fiume che sfugge al controllo umano, per capire che la relazione con l’ambiente sul territorio è sempre questione decisiva per coloro che la vivono.

Il problema non è la distrazione degli elettori, quindi, ma la qualità dell’offerta politica. L’enfasi sul valore normativo della scienza, dominante nei consessi internazionali, ha prodotto una narrazione escatologica, che non concepisce la possibilità che scelte contrastanti possano essere legittime, e che si affida all’urgenza come solo propulsore di qualsiasi soluzione.

Ma è del tutto evidente che la definizione scientifica di un problema, per quanto urgente e accurata, non aiuta da sola a decidere su cosa spendere i soldi, su chi debba fare sacrifici, e, soprattutto, su chi decide. Il mantello scientifico di cui l’ambientalismo moderno si veste finisce per nascondere la natura fortemente politica delle soluzioni e inibisce un dibattito onesto sulle migliaia di implicazioni più o meno locali che ne discendono.

Ed è qui che il fronte progressista sta fallendo un po’ ovunque, perché basare una piattaforma politica sull’urgenza di un problema globale ha fatto emergere un modo di intendere il rapporto tra la società e l’ambiente nel quale la scienza guida l’agire politico: un approccio gestionale alla sostenibilità che lascia poco spazio alla politica vera, quella discussa tra e con i cittadini, e che parla della loro casa. Un vicolo cieco, insomma.

La storia dell’ambientalismo

La dimensione storica di questa globalizzazione dell’ambientalismo è importante per capire dove siamo oggi. Le prime legislazioni per limitare gli impatti dell’industrializzazione sono state adottate per proteggere i paesaggi celebrati da John Ruskin, Aldo Leopold, e Theodore Roosevelt tra il tardo Ottocento e i primi anni del Novecento. Questi interventi si preoccupavano di proteggere un’estetica rurale, già cara ai romantici, non di sviluppare una teoria sociale o scientifica della sostenibilità.

È stato solo dopo la Seconda guerra mondiale che l’accelerazione nelle tecnologie per il monitoraggio dell’ambiente, il ruolo sempre più importante della scienza nella gestione delle risorse (un’eredità del conflitto mondiale), e la crescita di discipline come l’ecologia e la meteorologia, hanno portato le scienze ambientali ad assumere un ruolo sempre più autorevole. La convergenza tra estetica del passato e la supremazia degli strumenti scientifici è stata interpretata efficacemente negli anni Sessanta da Rachel Carson, autrice di Silent spring, il testo fondativo di denuncia contro l’inquinamento industriale, che ha rappresentato uno dei momenti più importanti nella genesi dell’ambientalismo moderno.

Negli anni Settanta, poi, l’ambientalismo si è spinto ben oltre la denuncia dell’illecito per diventare critica della modernità. Dal Club di Roma alla nascita del marxismo ecologico – un’invenzione occidentale, anche se oggi ha trovato casa nel Partito comunista cinese – la scienza ha iniziato ad assumere un valore normativo su scala planetaria. Peraltro, la crisi energetica di quegli anni aveva accelerato la deindustrializzazione dell’occidente, spostando la produzione verso la Cina di Deng Xiaoping. Ai paesi più ricchi non restava che definirsi profeti di un nuovo modello di sviluppo, compatibile con la loro sensibilità ambientale.

Le istituzioni internazionali poi, dalla Banca mondiale alle Nazioni unite, sono divenute il veicolo attraverso il quale questo nuovo modello di sviluppo, alternativo a quello pesantemente industriale dei tradizionali piani quinquennali sovietici, poteva essere trasferito anche ai paesi che si stavano decolonizzando. E così, nel 1972, la Conferenza delle Nazioni unite sull’Ambiente umano ha fondato Unep, la divisione ambientale dell’Onu, sotto la guida del canadese Maurice Strong. Era cominciata la globalizzazione della sostenibilità.

Quindici anni dopo, più o meno ai tempi del protocollo di Montreal, la Commissione presieduta dall’ex premier norvegese Gro Brundtland ha codificato l’idea di sviluppo sostenibile. Si trattava di un manifesto che metteva al centro della crescita economica – strumento principe di emancipazione sociale e politica del Ventesimo secolo – la definizione scientifica del pianeta come casa comune. L’anno dopo, la copertina di Time Magazine ha scelto come “uomo dell’anno” il pianeta Terra.

L’idea di ambiente come tema scientifico e gestionale globale ha avuto la sua consacrazione dopo la caduta dell’Unione sovietica, quando la conferenza di Rio de Janeiro del 1992, il cosiddetto Earth Summit delle Nazioni unite, ha prodotto le due convenzioni quadro, quella sui cambiamenti climatici e quella sulla diversità biologica (oltre agli accordi per combattere la desertificazione), che hanno stabilito la scienza come fondamento della pianificazione ambientale, e la cooperazione internazionale come il suo quadro attuativo principale.

Quale sviluppo scegliere

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Per anni l’architettura delle convenzioni internazionali ha spinto i paesi membri, a volte con fatica, a trasformare le proprie economie e a gestire il proprio paesaggio in servizio di un’agenda ambientale. Solo un anno fa, l’entusiasmo generato dalla Cop sul clima di Glasgow sembrava essere prova che il tema avesse raggiunto l’apice dell’agenda politica.

Ma un anno può essere un’eternità. A New York, tra una perorazione e l’altra, si percepiva già un senso diffuso per cui la causa ambientale, fino all’anno scorso saldamente fondata su obiettivi dettati dalla scienza e piani globali per raggiungerli, potrebbe presto ritrovarsi orfana di un processo forte e condiviso. Le convenzioni internazionali, infatti, dipendono dal mutuo riconoscimento di stati-nazione, basato sui principi di autodeterminazione dei popoli e il riconoscimento dell’integrità territoriale (articoli 1 e 2 dello statuto delle Nazioni unite). Sono proprio quei principi che il presidente russo Vladimir Putin ha infranto invadendo militarmente l’Ucraina.

L’indebolimento delle istituzioni internazionali rischia di lasciare una buona parte dell’ambientalismo occidentale in preda all’impotenza, spingendolo a ripiegarsi su poco più di un’idea estetica e moralizzante della natura. Sta già accadendo. In febbraio, il parlamento italiano ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana per estendere la tutela della Repubblica all’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.

La riforma, passata con un’ampia maggioranza, è stata celebrata come un adeguamento della carta alle preoccupazioni contemporanee. Ma in questa nuova formulazione non si tutela un diritto specifico dei cittadini, per esempio a un ambiente sano o a uno sviluppo sostenibile. Lo stato, non il cittadino, è il protagonista di questa nuova relazione costituzionale con l’ambiente, che rischia di diventare uno strumento reazionario.

Il problema fondamentale dell’Italia, come si è visto negli ultimi mesi, non è la tutela del paesaggio da un’espansione industriale o dai danni di singole attività economiche, per quanto ancora presenti. Il tema sarà invece sempre più la trasformazione di tutto il territorio a fronte di forti cambiamenti climatici che avranno impatti enormi sulla distribuzione d’acqua e sulla natura stessa degli ecosistemi. Questo imporrà scelte complesse: la costruzione di una ecologia necessariamente artificiale, in cui interessi economici, sociali, e culturali dovranno essere attentamente bilanciati.

Non sarà possibile vincolare lo sviluppo del paesaggio, poiché uno sviluppo del paesaggio si renderà necessario e inevitabile a fronte dei cambiamenti che l’ambiente subirà. La domanda è quale tipo di sviluppo scegliere. I conflitti che emergeranno dovranno essere risolti in sede politica, non costituzionalizzati con il rischio di paralizzare qualsiasi decisione.

Progressisti conservatori

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L’ambientalismo è una riserva di energia politica importante, evidente dal fervore che provoca tra i più giovani. Ma spesso i fronti progressisti che ne hanno abbracciato la retorica non hanno dato prova di progressismo, ma di conservatorismo. Hanno avanzato una teoria della società dove giustizia, progresso, libertà, equità e il diritto alla realizzazione della persona sono semplicemente subordinate alla tutela di un ambiente astratto. E gli elettori non li hanno premiati.

Una gestione dell’ambiente che favorisce il progresso deve essere altro. Deve partire da un’idea di crescita sociale ed economica che permetta l’emancipazione degli individui, promessa ancora inattuata per molti nella nostra società. Deve preoccuparsi della forma e qualità delle istituzioni politiche preposte a prendere decisioni sul territorio e, soprattutto, che la loro legittimità non sia tanto subordinata alla scienza, quanto informata da essa.

L’ambiente dell’Italia sarà trasformato in maniera sostanziale: il cambiamento climatico lo rende inevitabile. Il ruolo di un fronte progressista non è quello di invocare solo conformità ai processi internazionali, ma di avere il coraggio di descrivere il futuro fisico del paese, la trasformazione del territorio dal quale dipendiamo per tutto: energia, cibo, sicurezza idrica, cultura. Che cosa vedremo quando guardiamo fuori dalla finestra? Una proposta di progresso può e deve partire da lì.

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