La corsa ai combustibili fossili non si ferma, anzi in alcuni casi sembra essere inarrestabile. È questa la conclusione che si trae leggendo il rapporto presentato a Glasgow, a margine della Cop26, dalla Ong tedesca Urgewald, insieme ad altre realtà della società civile internazionale tra cui Greenpeace Italia e ReCommon.

Lo studio analizza l’operato di 887 società petrolifere e del gas, che rappresentano più del 95 per cento della produzione globale di idrocarburi. Una fotografia quanto mai nitida della realtà del mondo dell’estrattivismo, che va in totale controtendenza con le richieste della società civile, scesa in massa in piazza lo scorso fine settimana per chiedere una svolta radicale alla lotta alla crisi climatica, ma anche con quanto ormai predicano istituzioni “insospettabili”.

Se ci si può aspettare che l’Ipcc, organismo delle Nazioni Unite che tratta direttamente il tema dell’emergenza del clima, dichiari expressis verbis che senza una drastica riduzione dell’uso dei combustibili fossili possiamo dimenticare l’obiettivo di mantenere il surriscaldamento globale a +1,5 gradi entro il 2030, è quanto mai sorprendente e significativo che l’iper-conservatrice Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) chieda di fatto di lasciare addirittura i combustibili fossili sotto terra. Il direttore dell’Aie, Fatih Birol, ha infatti affermato che «se i governi volessero affrontare seriamente la crisi climatica, non ci dovrebbero essere più investimenti in gas, carbone e petrolio a partire da quest’anno».

Fra la Terra e la Luna

Il rapporto di Urgewald ci illustra invece come negli ultimi tre anni le grandi del settore abbiano investito ben 168 miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti, con le cinesi PetroChina (6 miliardi) e China National Offshore Corporation (2,8 miliardi) a tirare la fila, subito incalzate dall’anglo-olandese Shell (2,4 miliardi). Una spasmodica ricerca che poi si trasforma in produzione di barili.

Sebbene tante aziende difettino in trasparenza, la Ong tedesca ha potuto riscontrare che 506 società stanno per aggiungere almeno 190 miliardi di barili equivalenti di petrolio alla loro produzione entro i prossimi sette anni. Come si evince dal database, le più attive sono Qatar Energy (20 miliardi), la russa Gazprom (17 miliardi) e la Saudi Aramco (15 miliardi).

Anche sul fronte midstream, cioè le infrastrutture per il trasporto di idrocarburi, lo scenario è allarmante: ci sono attualmente 211.849 chilometri di oleodotti e gasdotti in via di sviluppo. Se questi tubi fossero puntati verso il cielo, arriverebbero a metà strada tra la Terra e la Luna. Le prime cinque società costruttrici sono Gazprom, PipeChina, Sinopec, China National Petroleum Corporation e l’indiana Gail.

Il ruolo dell’Eni

Tra i protagonisti del data base di Urgewald c’è anche la nostra Eni, che si colloca nella top 20 dei produttori globali di petrolio e gas, con 666 milioni di barili equivalenti di petrolio nel solo 2020. Inoltre, attraverso la sua controllata Vår Energi, Eni figura anche nella top 10 delle società che sfruttano le risorse della regione artica, soprattutto con le piattaforme petrolifere nel Mare di Barents, con 50 milioni di barili equivalenti di petrolio: mettendo insieme i due dati, emerge come quasi il 10 per cento della sua produzione derivi dalle operazioni in quest’area.

Come evidenziato anche dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Artico «si sta riscaldando in modo molto maggiore di quanto avvenga nel resto del pianeta. In tale regione molti processi legati al cambiamento climatico possono essere amplificati».

Nuovo petrolio

Solo nell’estate 2020, l’artico siberiano è stato colpito da più di 300 grandi incendi e da uno dei peggiori disastri petroliferi nella sua storia, con lo sversamento di circa 20mila tonnellate di gasolio nei corsi d’acqua di Norilsk, nella penisola di Taymyr. Nel mese di giugno dello stesso anno, gli incendi avevano causato il rilascio di una quantità di anidride carbonica pari a quella emessa dalla Norvegia in un solo anno. A ciò si aggiunge il sempre più rapido scongelamento del permafrost e, sul fronte marino, quello dei depositi di metano, che rischiano di rilasciare nell’atmosfera enormi quantità di gas serra.

Nell’Artico, Eni si trova a operare in partnership con la norvegese Equinor, anch’essa nella top 20 dei produttori globali di petrolio e gas. Controllata dallo stato, Equinor traina l’economia della Norvegia grazie al suo business fossile.

La piattaforma Goliat, in capo alle due società, produce più di 100mila barili di greggio al giorno, e nel 2022 si dovrebbe aggiungere la produzione dal giacimento Johan Castberg. Di recente, Eni ha scoperto nuovo petrolio nell’area, con la perforazione del pozzo esplorativo di Isflak. A causa della progressiva riduzione della calotta polare artica, la corsa alle risorse naturali del mar glaciale artico sembra solo iniziata, come testimoniano le 70 licenze offerte di recente dal governo norvegese. L’incremento della produzione non fa altro che concedere ulteriori anni di vita all’economia del petrolio, soprattutto in Europa, principale mercato di destinazione del greggio artico.

Popolazioni locali

Migliaia di chilometri più a sud, a cavallo del Tropico del Capricorno, le operazioni di Eni si concentrano in Mozambico, al largo delle coste di Cabo Delgado.

Per secoli, le élite nazionali e le società multinazionali hanno saccheggiato le abbondanti risorse naturali dell’area, in modo particolare rubino, grafite, oro e legname, rendendo Cabo Delgado una delle province economicamente più povere del Mozambico.

Ora Cabo Delgado ospita tre dei più grandi progetti di gas naturale liquefatto (Gnlt) in Africa: Mozambique Lng di Total, Coral South Flng di Eni ed ExxonMobil, Rovuma Lng di ExxonMobil, Eni e China National Petroleum Corporation. Nel corso degli anni, queste società non hanno perso occasione per affermare che anche la popolazione locale avrebbe beneficiato della produzione di gas. Tuttavia, la realtà racconta una storia ben diversa.

Intere comunità sono state sgombrate con la forza per fare spazio agli impianti di lavorazione del gas, costringendo 557 famiglie ad abbandonare la loro terra e, di conseguenza, i proventi derivanti da pesca e agricoltura. La terra che il governo ha offerto per conto delle società petrolifere come risarcimento è fino a dieci volte più piccola di quella posseduta originariamente, e spesso distante dalla costa, costringendo le persone anche a cambiare stile di vita. In questa situazione di per sé degradante, molte famiglie stanno ancora aspettando il risarcimento promesso.

La corsa continua

Se ciò non bastasse, nel 2017, poco tempo dopo l’inizio delle operazioni sui giacimenti di gas, sono arrivati gruppi di insorti di matrice islamista. Vari gruppi armati hanno attaccato il governo e i progetti del gas, ma soprattutto la popolazione civile, costringendola a lasciare i propri villaggi per poi bruciarli, in continuità con le demolizioni da parte delle società petrolifere. A lungo violenze efferate come mutilazioni e decapitazioni sono state all’ordine del giorno.

Eni, Exxon e Total stanno dando la priorità alla protezione dei loro progetti rispetto alla vita delle persone, pagando il governo per mobilitare le truppe per difendere le proprie infrastrutture invece delle persone. Cabo Delgado è ora un luogo devastato dal conflitto armato.

Secondo il database di Urgewald, nell’arco dei prossimi anni Eni prevede di aggiungere circa 1.900 milioni di barili equivalenti di petrolio alla sua produzione attuale. Di questi, il 42 per cento deriva da operazioni non-convenzionali, cioè caratterizzate da alti livelli di pericolosità per l’ambiente e le comunità. Tra i principali idrocarburi non-convenzionali rientrano proprio le esplorazioni nella regione artica, la ricerca di petrolio negli abissi più reconditi degli oceani e i processi legati al gas naturale liquefatto.

Questi dati sono in linea con quelli contenuti nel Piano strategico 2021-2024 di Eni, che prevede un aumento della produzione di idrocarburi del 4 per cento all’anno. Un dato che stride con le promesse di decarbonizzazione, con emissioni nette pari a zero entro il 2050, che per il 75 per cento dovrebbe avvenire solo dopo il 2030. I dati del rapporto mostrano cosa si nasconda dietro quel “nette”: espansione del business fossile e ricadute socio-ambientali e climatiche pericolose. Non esattamente quello che ci si aspetterebbe per mettere un freno alla crisi climatica.

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