La Tunisia sta attraversando una crisi profonda, da cui appare difficile possa uscire in tempi brevi. La consultazione elettorale conclusa lunedì, boicottata da circa il 90 per cento degli aventi diritto, ha sancito la fine del fragile processo di democratizzazione partito con la rivoluzione del 2010-11.

In pochissimi si sono recati alle urne per eleggere un parlamento depotenziato dalla nuova Costituzione voluta ed imposta dal presidente conservatore Kais Saied.

Nella carta costituzionale, ratificata da un referendum senza quorum, anch'esso snobbato da quasi il 70 per cento della popolazione, si stabilisce una specie di iper-presidenzialismo, con un drastico ridimensionamento del peso e dell’indipendenza delle altre istituzioni, dal parlamento alla magistratura. 

L'instabilità politica fa il paio con quella del settore estrattivo, a lungo voce importante dell'economia del paese, ma negli ultimi anni in difficoltà, complici il naturale esaurimento dei depositi e il calo degli investimenti dovuto anche alle turbolenze politiche.

Quasi tutte le compagnie estrattive che operano nel paese hanno più volte manifestato l’intenzione di cedere le proprie concessioni, ma finora nessuna sembra aver dato concretamente seguito agli annunci, anche per via delle resistenze del governo locale.

Cosa fa l’Eni

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Tra quelle propense, almeno sulla carta, ad abbandonare la Tunisia c'è anche l'italiana Eni, che lì opera da oltre sessant'anni. Un dato significativo, visto che degli oltre 60 paesi dove è attiva, solo in altri cinque la società fondata da Enrico Mattei è presente da così a lungo.    

Eni è in Tunisia dal 1961 e nel corso del tempo è stata determinante nello scoprire alcuni dei giacimenti più ricchi.

Negli ultimi mesi abbiamo  ripercorso la storia più recente di Eni in Tunisia, attraverso gli eventi più iconici che l’hanno segnata. Abbiamo tentanto di comprendere quale sia oggi l’eredità della più importante azienda italiana e cosa si celi dietro le voci di addio.

Abbiamo attraversato la Tunisia da nord a sud, incontrando attivisti, giornaliste, contadini, sindacalisti, esperti, deputate e anche lavoratori dell’industria petrolifera. Le storie che ci hanno raccontato parlano di povertà, marginalizzazione e aspettative tradite. Ma anche di resistenza, agitazioni sindacali e rivolte che hanno sfidato le multinazionali del fossile e la militarizzazione che accomuna molte delle regioni in cui esse operano.

Dopo la rivoluzione del 2011

L’ordine sociale di cui l’industria petrolifera aveva a lungo beneficiato, si modifica radicalmente con la rivoluzione che a gennaio 2011 porta alla caduta di Ben Ali. In quel momento in Tunisia si apre una nuova stagione politica, alimentata dalle richieste di maggiore democrazia e diritti.

Istanze di cambiamento che si ripercuotono fortemente sul settore petrolifero, preso a simbolo, come spesso avviene, della gestione opaca e nepotistica del regime uscente.

La società civile, sostenuta da alcune forze parlamentari, chiede a gran voce maggiore trasparenza sull’industria estrattiva e sulla gestione dei suoi proventi, ma il governo non sembra disposto a cedere. D’altra parte, diverse figure apicali dell'esecutivo tunisino provengono proprio dal comparto petrolifero, tra cui l’allora ministro dell’Energia, Khaled Kaddour, il quale aveva ricoperto precedentemente il ruolo di vice-presidente di Eni.

Ne nasce un duro braccio di ferro tra lo zoccolo duro dell’esecutivo e gli organi parlamentari che erano stati creati appositamente per vigilare sulla gestione del settore del petrolio. Scontro in cui rimane coinvolta anche Eni, la quale si vede inizialmente negare il rinnovo di una delle licenze petrolifere più importanti del paese.

Tensioni petrolifere

 

Mikel Bilbao /VWPICS

Eni ha dovuto fronteggiare anche una raffica di proteste, iniziate a Tataouine, nell’estremo Sud del Paese. La regione è un triangolo desertico che delimita il confine orientale con l’Algeria e quello a ovest con la Libia.

Sotto questa distesa di sabbia rossastra, costellata da villaggi berberi risalenti al dodicesimo secolo, si trova circa la metà delle riserve di petrolio e gas del paese.

Una ricchezza che contrasta fortemente con la povertà in cui vivono molti dei 150 mila abitanti di Tataouine. Nel 2017, la sollevazione popolare porta le multinazionali fossili ad evacuare l'area e il governo a reprimere con la violenza – si registra anche una vittima – prima di trovare un accordo con i manifestanti. Accordo che prevedeva l'assunzione di migliaia di persone da parte delle multinazionali fossili e che non è mai stato rispettato, scatenando altre tensioni nel 2020.

Sebbene la produzione petrolifera del Paese sia molto ridotta rispetto a quella dei suoi vicini, come Algeria o Egitto, la Tunisia riveste comunque un ruolo fondamentale nello scacchiere energetico del Mediterraneo. Il suo territorio è infatti attraversato dal Transmed, il complesso sistema di gasdotti costruito e gestito da Eni, che trasporta il gas algerino fino in Italia.

Un’infrastruttura diventata ancor più strategica ora che il nostro paese deve supplire alla riduzione dei flussi dalla Russia e per farlo ha stretto nuovi accordi con l’Algeria, diventato il nostro primo fornitore di gas. Il Transmed trasporta circa 60 milioni di metri cubi di gas al giorno in Italia, sufficienti a coprire il 30 per cento del fabbisogno nazionale.

Il gasdotto parte dal campo estrattivo algerino di Hassi R’Mel e attraversa la Tunisia per circa 400 chilometri sino a raggiungere la penisola di Capo Bon, da dove i tubi si inabissano sotto il mar Mediterraneo per approdare infine sulle coste siciliane, presso Mazara del Vallo.

L’opera è gestita da una fitta rete di società, molte delle quali controllate o partecipate dal Cane a sei zampe. Per quanto riguarda il tratto tunisino, la proprietà del gasdotto spetta allo Stato, mentre Eni possiede uno degli asset più importanti, ovvero il diritto esclusivo di commercializzazione della capacità di trasporto, attraverso la società Trans Tunisian Pipeline Company (TTPC).

La porta d’ingresso del gasdotto in Tunisia è Majel Bel Abbes, una delle province più povere del Paese, dove sorge un’enorme centrale di compressione gestita da Sergaz, società partecipata da Eni con la compagnia di stato ETAP.

Si tratta di un territorio fortemente militarizzato, dove in passato si sono verificati attentati terroristici, e l’accesso ai non residenti necessita di approvazione da parte del ministero della Difesa. Così come a Tataouine, anche a Majel Bel Abbes la popolazione è più volte insorta contro la multinazionale italiana, rivendicando una fetta più ampia dei ricavi del gas.

Recentemente, il colosso energetico italiano ha deciso di espandere le sue attività in Tunisia anche oltre il settore dei combustibili fossili.

Pochi mesi fa, è entrato in funzione il primo progetto per la produzione di energia da fonti rinnovabili realizzato da Eni nel Paese.

L’impianto in questione si trova nella già citata regione di Tataouine e ha una potenza complessiva di 10 MW. Per realizzarlo, Eni ha formato una Joint-Venture paritetica con l’ETAP, denominata Société Energies Renouvelables.

L’accordo prevede che l’elettricità prodotta sia venduta direttamente alla società tunisina STEG, sulla base di un Power Purchase Agreement della durata di 20 anni. Anche in questo caso, però, non sono mancate le proteste, stavolta guidate dai sindacati.

La società sta inoltre investendo nella coltivazione industriale di carburanti vegetali che serviranno ad alimentare le bio-raffinerie del cane a sei zampe a Gela e Marghera.

Nelle prossime puntate di questa inchiesta approfondiremo tutti questi temi, tentando di offrire uno sguardo di insieme sulle attività di Eni in Tunisia e sui conflitti che continuano a generare.

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