Nel 2015 un’eruzione di un vulcano sottomarino portò alla nascita di un lembo di Terra in Oceano Pacifico. Senza un nome ufficiale l’isola venne chiamata da isolani vicini Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Hunga Tonga) dal nome del vulcano sottomarino che l’aveva creata. Come fosse un mondo alieno appena nato, l’isola divenne meta di scienziati di molte discipline per studiarne l’evoluzione. Una situazione da non lasciarsi sfuggire visto che la nascita di isole come queste è estremamente rara: negli ultimi anni infatti, ve non sono state solo tre.

Vita e morte di un’isola vulcanica

E così le “spedizioni” sono state molteplici, soprattutto attraverso rilevamenti aerei e satellitari. Poche invece, sono state quelle che hanno raggiunto l’isola da Terra, soprattutto per le difficoltà di approccio.

Tra le più importanti vi è stata quella condotta dalla Woods Hole Oceanographic Institution nell’ottobre del 2018, guidata da Dan Slayback del Goddard Space Flight Center della Nasa. Il gruppo di ricercatori ha realizzato misurazioni Gps e sorvoli con droni per definirne la forma con estrema precisione al fine di determinare quale fosse stata l’azione del mare nell’arco di un così breve periodo sulle sue coste.

Ciò che ha lasciato sorpresi i ricercatori più di ogni altra cosa è l’aver osservato quando velocemente la vita si è diffusa sull’isola. Da un lato la vegetazione, la quale aveva già dato vita qua e là a macchie ben sviluppate e si è ipotizzato che si sia diffusa così velocemente grazie a semi portati da uccelli, dall’altro la presenza di centinaia di volatili, in particolare “sterne fuligginose” (Onychoprion fuscatus), i quali avevano trovato tra i calanchi scavati dalle piogge nei terreni vulcanici un luogo ideale per la nidificazione.

Eccitati da tutto questo i ricercatori avevano già ipotizzato la costruzione di un campo base scientifico per studiare quale sarebbe stata l’evoluzione futura dell’isola. Forse si sarebbe potuto capire come la vita si diffuse sulla Terra o anche su altri pianeti. Ma ecco una nuova eruzione sottomarina del vulcano avvenuta nel 2022, così violenta da spazzare via ciò che aveva edificato otto anni prima. L’isola era riuscita a sopravvivere all’azione del mare che spesso disgrega isole simili in poco tempo, ma il vulcano che l’aveva generata aveva deciso di distruggerla.

Le conseguenze del Niño

Dopo una Niña durata tre anni, tutti i modelli e i dati fin qui ottenuti dicono che un evento di El Niño è ormai arrivato e potrebbe avere conseguenze planetarie. Anche se alcuni modelli dicono che potrebbe essere un evento moderato, altri sostengono che potrà essere potente e meteorologi e funzionari addetti alle emergenze climatiche si stanno preparando a potenziali inondazioni e siccità e alla possibilità che le temperature planetarie possano raggiungere livelli record. L’Oms  ha avvertito che il nuovo El Niño potrebbe alimentare la diffusione di malattie trasmesse dalle zanzare, come Zika e Chikungunya. 

Va ricordato che con El Niño gli alisei si allentano sopra l’oceano Pacifico tropicale, consentendo alle acque più calde di viaggiare verso est attraverso il Pacifico equatoriale. Lo scorso 8 giugno la National Oceanographic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti ha dichiarato che un El Niño era sicuramente arrivato e che prevedeva che si sarebbe rafforzato gradualmente nei prossimi mesi. Altre agenzie meteorologiche non hanno ancora dichiarato ufficialmente l’arrivo di El Niño, perché si basano su indici diversi per definirne l’inizio, ma molte hanno affermato che ci sono tutti gli indizi che fanno pensare che il suo arrivo sia ormai prossimo. Le condizioni di El Niño si sono verificate solo pochi mesi dopo che il suo opposto, La Niña, è andata scemando nei primi mesi del 2023.

Ma perché c’è così tanta attenzione verso questo fenomeno? Semplicemente perché El Niño riscalda alcune regioni del pianeta più del solito. Ciò significa che il crescente El Niño, se diventa abbastanza imponente, potrebbe spingere le temperature globali a livelli record o quasi nel 2024. Non va dimenticato che l’anno più caldo mai registrato in tempi recenti è stato il 2016, grazie, almeno in parte, alla presenza di un potente El Niño. Se si avrà una medesima situazione, il prossimo anno sarà da ricordare per le temperature che si registreranno.

Ed è per questo che, nel frattempo, alcune nazioni si stanno preparando a una serie di impatti non indifferenti: l’Australia e parti del sud est asiatico a forti siccità, Corno d’Africa e Asia centrale ad un aumento delle precipitazioni. Le forti piogge potrebbero inondare i terreni agricoli, riducendone la produzione, mentre la siccità farà soffrire i raccolti. In Indonesia, che probabilmente registrerà condizioni più asciutte del normale, il governo ha recentemente firmato un accordo con l’India per poter importare riso in caso di emergenza.

Anche nella sua infanzia, questo El Niño sta colpendo la salute umana. Lungo le coste del Perù e dell’Ecuador piogge torrenziali si sono già verificate all’inizio di quest’anno. Le conseguenti inondazioni, combinate con le piogge di un ciclone tropicale a marzo, hanno permesso a più zanzare di riprodursi e trasmettere malattie virali, inclusa la dengue. In Perù, più di 150 persone sono morte a causa di questa epidemia. Certamente El Niño non è la causa unica: molti fattori, inclusa la mancanza di controllo delle zanzare, possono influenzare l’entità di un focolaio, ma El Niño può incentivare la situazione.

Assaf Anyamba, un geografo dell’Oak Ridge National Laboratory nel Tennessee, ha messo in luce come, quest’anno, casi di malattie come la dengue e la chikungunya hanno avuto un boom nel sud-est asiatico, dove gli impatti di El Niño possono essere particolarmente forti. In l’Africa orientale invece, El Niño è associato a focolai di febbre incontrollata e altre malattie nella Rift Valley. Durante l’ultimo grande El Niño, nel 2015-16, Anyamba e i suoi colleghi hanno registrato epidemie in tutto il mondo nelle aree che ne sono state maggiormente colpite. «L’idea generale», spiega il ricercatore, «è che El Niño amplifica situazioni già di per sé drammatiche». 

L’Europa senza lanciatori spaziali

Nonostante i ripetuti lanci che avvengono quasi quotidianamente, andare verso lo spazio è ancora molto difficile e ogni nuovo razzo che viene studiato e costruito trova ancora notevoli difficoltà prima di entrare in produzione. Siamo ancora lontani dal momento in cui l’ideazione e la costruzione di un nuovo razzo potrà essere simile all’ideazione e alla costruzione di una nuova automobile. E ciò sta creando problemi non indifferenti all’Europa che potrebbe rimanere senza lanciatori per diversi mesi se non per qualche anno.

Una prima notizia arriva da quello che dovrebbe essere un gioiello dell’astronautica italiana ed europea: il Vega-C. L’ultimo lancio – a dicembre 2022 – era stato un fallimento a causa di un problema al motore del secondo stato chiamato Zefiro-40. Capito e superato il disguido è stata fatta una prova di accensione del motore che si è acceso come previsto, ma a metà prova è stato spento per un altro problema che è emerso. Non si sa se sia grave o meno, Avio (la società costruttrice) non lo ha fatto sapere, sta di fatto che bisognerà attendere diversi mesi prima di rivedere Vega-C su una rampa di lancio. Nel frattempo, anche se tutto procede al meglio nell’evoluzione dell’Ariane 6, il vettore che sostituirà l’Ariane 5, i ritardi nella sua costruzione hanno reso lunghissimo il parto di questo vettore. In fase di sviluppo dall’inizio degli anni 2010 non volerà prima della fine del 2023. Tempi lunghissimi per un razzo che vuole essere concorrenziale sulla scena mondiale.

Ma le difficoltà si incontrano solo in Europa. Negli Stati Uniti è in atto un ritardo per un razzo fondamentale per l’aeronautica statunitense: il Vulcan di ULA. Anch’esso doveva già essere pronto da tempo e volare, ma proprio recentemente un razzo assemblato per una prova dei motori (che hanno funzionato a dovere) è stato smontato per modificare il secondo stadio al fine di rinforzare il serbatoio del carburante che era esploso in una fase di test lo scorso 29 marzo. In questo caso si dice che Vulcan non sarà pronto prima del 2024.

E che ne è di Starship, la nave spaziale che dovrà riportare l’uomo sulla Luna? Una profonda trasformazione nel sistema di separazione tra il razzo vero e proprio e la navetta superiore stanno ritardando di molto il secondo lancio (dopo che il primo tentativo ha visto l’esplosione del razzo).

La rivoluzione sta nel fatto che i motori della navetta si accenderanno prima che il primo stadio si stacchi, così da avere continuità nella spinta. È la stessa cosa che fanno i Soyuz russi da sempre. Ma questo implica una serie di elementi strutturale da aggiungere al razzo che non erano stati previsti in fase di studio di Starship. E i ritardi sono così profondi che ormai la Nasa ha abbandonato l’idea di arrivare di nuovo sulla Luna entro il 2025. Ma ce la farà per il 2026?

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