È capitato a tutti, almeno una mattina nella vita, di alzarsi dal letto, aprire il frigorifero e trovarci dentro una bottiglia di latte scaduta. La ritualità della colazione risulta compromessa e si crede di avere di fronte agli occhi il segno premonitore di una giornata che andrà male. «Che disdetta!», esclamano, infastiditi, i più. Eppure da questo piccolo dramma quotidiano, che un giorno è toccato anche ad Antonella Bellina, fondatrice di Duedilatte, è nata un’intuizione geniale: produrre un tessuto a partire dal latte scaduto.

Certo, da quell’idea in forma embrionale è stato necessario un duro lavoro e l’impiego di tutta la professionalità di cui Antonella dispone – è una ricercatrice tessile- per concretizzare un filato naturale a partire dalla caseina, la principale proteina del latte. «Rispolverando le mie conoscenze merceologiche ho scoperto che già negli anni Trenta un ingegnere bresciano era riuscito a sintetizzare una fibra partendo dal latte», racconta Bellina.

Il Lanital

Nel 1933 la produzione di latte, all’epoca considerata eccessiva, aveva spinto l’ingegnere Antonio Ferretti a cercarne impieghi alternativi. Era così nato il Lanital, un filato molto grezzo derivante dalla caseina, che veniva impiegato prevalentemente per l’imbottitura delle divise dei soldati. Quando poi, negli anni Sessanta, hanno iniziato ad essere prodotte fibre tessili a partire dal petrolio, l’utilizzo del Lanital è stato abbandonato. Almeno finché nel 2013 Duedilatte ha visto la luce. Rispetto al metodo messo a punto dall’ingegner Ferretti quello ideato da Antonella con il supporto di un team di scienziati è totalmente nuovo, come lei stessa spiega.

«Abbiamo studiato il processo in collaborazione con un team di chimici e ingegneri nonché tecnici specializzati nello sviluppo di fibre naturali. Sperimentando varie soluzioni siamo giunti ad un processo nuovo che prevede l’utilizzo degli aminoacidi caseici e non più della sola caseina, questi sono risultati più performanti soprattutto non deperibili e resistenti nel tempo». Il team di bioingegneri della Duedilatte ha scelto di non utilizzare, nelle fasi di lavorazione, sostanze chimiche tossiche aggiunte. Un processo che, dice Antonella, «ha reso la nostra fibra unica nel suo genere. Il vecchio Lanital, infatti, prevedeva l’impiego di formaldeide ed altre sostanze chimiche oggi tossiche. La fibra Duedilatte è certificata naturale, antibatterica e anallergica».

Gli scarti alimentari

La materia prima, ovvero il latte scaduto, e le tecniche impiegate nella produzione della fibra sono i due elementi di un modo nuovo di guardare al fashion che si serve delle lenti della sostenibilità. Secondo uno studio del Boston Consulting Group (o BCG) condotto nel 2018 ogni anno sono 1,6 miliardi le tonnellate di cibo che vanno al macero. Nel 2021 queste stime vengono corrette al rialzo in una ricerca del Wwf secondo la quale il cibo sprecato ogni anno ammonta a 2,5 miliardi di tonnellate.

Per rendere la vastità del fenomeno basti pensare che, a livello mondiale, le perdite corrispondono a un terzo dei beni alimentari prodotti. Dal lavoro sopra citato del BCG emerge che lo spreco di cibo avviene durante ciascuna delle fasi del ciclo di vita di un alimento, per questo gli autori dello studio incoraggiano interventi di sensibilizzazione non solo a livello di filiera produttiva e di distribuzione ma anche a livello di consumatori.

In Italia, secondo quanto emerso dal report del 2022 dell’Osservatorio Waste Watcher, ogni settimana vengono gettati nella spazzatura 595,3 grammi di cibo a persona. Si tratta di oltre 25 kilogrammi all’anno.

In Italia, il latte contribuisce per poco meno del 18 per cento al monte complessivo degli alimenti che, ogni anno, finiscono nella spazzatura. Un dato leggermente più alto rispetto alla media mondiale. Secondo il Fao, l’Organizzazione internazionale delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, nel mondo la voce “latte e latticini” partecipa allo spreco alimentare con una quota del 17 per cento.  Per ovviare allo spreco di latte, che secondo l’organizzazione benefica britannica Wrap nel Regno Unito è il terzo alimento più sprecato in casa dopo patate e pane, la catena di supermercati Morrisons ha deciso di cambiare la dicitura apposta sulle confezioni di latte scremato da “consumarsi entro” in “consumarsi preferibilmente entro”.

L’obiettivo è quello di evitare che a pochi giorni dalla scadenza il latte ancora in buone condizioni sia gettato via. Come ha spiegato Ian Goode, responsabile manager di settore di Morrisons, la catena sta spingendo i propri clienti a «evitare con un piccolissimo impegno sforzi inutili da parte dei nostri agricoltori e emissioni di carbonio non necessarie nell'atmosfera».

Al di là della responsabilità etica il disavanzo di cibo ha un considerevole costo in termini ambientali. Secondo il Food Waste Index Report del 2021 le emissioni causate dallo spreco alimentare potrebbero raggiungere anche il 10 per cento delle emissioni totali di gas serra. Secondo i dati del Fao, il quantitativo di inquinamento prodotto dagli scarti alimentari è terzo, dietro a quello prodotto da Cina e Stati Uniti.

Il fast fashion

Parlando degli effetti ambientali prodotti dallo spreco di cibo non si può non menzionare un altro fenomeno legato a doppio filo a questo e alla evoluzione del settore tessile: il fast fashion. L’espressione, utilizzata per la prima volta a New York nel 1989, descrive un modello di business adottato dall’industria della moda che prevede la produzione di un elevato numero di collezioni ogni anno.

Queste soddisfano la domanda di continue novità proveniente dai consumatori che desiderano indossare prodotti di tendenza a basso costo. All’aumentare della quantità non corrisponde un parallelo miglioramento della qualità. Al contrario, tessuti e metodi di produzioni vengono rivisti al ribasso. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature nel 2020 è stato rilevato che ogni anno vengono utilizzati circa 80 milioni di capi di abbigliamento, circa 400 volte il numero di quelli che venivano indossati due decenni fa.

L’inquinamento da CO2 prodotto dalla produzione spasmodica di vestiti è circa 10 per cento delle emissioni globali. I dati non migliorano se si parla di inquinamento idrico, al quale le industrie di moda contribuiscono per il 20 per cento attraverso il trattamento e la tintura dei tessuti. A ciò si aggiunga che per produrre gli abiti del fast fashion viene utilizzata anche parte dell’acqua potabile disponibile nel mondo. Per produrre un paio di jeans, ad esempio, sono necessari circa 7 mila litri di acqua che è più o meno l’equivalente della quantità di acqua bevuta da una persona in cinque anni.

Moda eco-compatibile

La distanza rispetto al modello di business adottato da aziende come Duedilatte è evidente. Basti pensare che per produrre un chilogrammo di filato derivato dal latte l’azienda impiega soli due litri d’acqua. «Lavorare fibre naturali significa partire da una materia prima che di base è uno scarto ma che per noi rappresenta una risorsa – dice Bellina - La mission di Duedilatte è quella di riuscire ad offrire alternative sostenibili nel settore tessile che abbiamo non solo un bassissimo impatto ambientale ma che possano stimolare le coscienze dei consumatori ad un utilizzo più responsabile delle risorse del pianeta, nel rispetto di quello che ci viene offerto naturalmente». Ad oggi l’azienda nata nel 2013 ha esteso l’orizzonte della produzione iniziando a sintetizzare tessuti a partire dal riso e dal caffè, alimenti che in forma di fibra tessile hanno numerose proprietà.

«Il riso ha un alto potere di assorbimento dell’umidità e dunque nel settore tessile altamente performante in tessuti destinati allo sport. Il caffè è una fibra innovativa che racchiude in sé la caffeina che riattivando il microcircolo cutaneo fa sì che il corpo produca calore che viene poi trattenuto dalla fibra stessa donandole un potere scaldante» spiega la fondatrice.

Duedilatte non è l’unica azienda ad aver trasformato scarti alimentari: c’è chi, come la Frumat di Bolzano o Zero Grado Espace, produce pelle a partire, nel primo caso, dalle bucce di mela e, nel secondo, dai funghi, o chi come Orange Fiber produce tessuti a partire dagli agrumi essiccati. Tutti animati dallo stesso proposito: far indossare alle persone ciò che prima hanno gettato nel secchio della spazzatura.

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