Nei prossimi anni cambierà il modo in cui consumeremo il nostro cibo. E si dovrà pensare alla sostenibilità non solo in termini ambientali ma anche economici e sociali. Per rendere il sistema alimentare europeo più sano, equo e sostenibile il 20 maggio la Commissione europea ha presentato la strategia “Farm to fork - dal produttore al consumatore” (F2f), votata ieri dal parlamento. La F2f è stata definita come il cuore del Green deal, il piano che mira a fare dell’Europa il primo continente a zero emissioni entro il 2050.

La strategia, di durata decennale, si sviluppa intorno a sei macro-obiettivi: una riduzione del 50 per cento dell’uso di pesticidi chimici; il dimezzamento della perdita di nutrienti e quindi la riduzione di almeno il 20 per cento dell’uso di fertilizzanti; la riduzione del 50 per cento di antimicrobici per gli animali d’allevamento e di antibiotici per l’acquacoltura; un aumento del 25 per cento dei terreni agricoli destinati all’agricoltura biologica e infine la riduzione del 10 per cento del suolo utilizzato per gli allevamenti intensivi. A questo si aggiungono: una nuova etichettatura nutrizionale, un miglioramento del benessere degli animali e l’inversione della perdita di biodiversità. La F2f punta quindi a premiare gli agricoltori, i pescatori e gli altri soggetti attivi lungo la filiera alimentare che abbiano già cominciato la transizione verso pratiche sostenibili.

L’industria agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra: 17 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno secondo uno studio della rivista Nature Food, di cui il 29 per cento deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale e il 57 per cento dai cibi di origine animale. Gli allevamenti intensivi, il disboscamento per il pascolo, la produzione di mangimi e le emissioni di metano sono tra le principali cause dei cambiamenti climatici. In particolare, nell’Unione europea l’agricoltura è responsabile del 10,3 per cento delle emissioni di gas serra e di queste quasi il 70 per cento proviene dal settore zootecnico. Per l’Università della Tuscia, in Italia gli allevamenti stanno consumando il 39 per cento delle risorse naturali messe a disposizione dal territorio agricolo italiano.

Nel testo della Farm to fork si legge che la strategia è «il risultato di anni di politiche dell’Ue per proteggere la salute umana, animale e vegetale e gli sforzi di agricoltori e allevatori», un’inversione di rotta rispetto alla Politica agricola comune (Pac), che fino a oggi ha favorito soprattutto l’industria intensiva. In realtà i principali destinatari della F2f, cioè piccoli allevatori e piccoli agricoltori non sono informati sugli impatti che questa potrebbe avere sulle loro attività.

I timori delle lobby

Al mercato di Campagna amica della Coldiretti, al Circo Massimo di Roma, la gran parte degli agricoltori e degli allevatori che abbiamo intervistato ci ha detto di non conoscere la F2f, nonostante appartengano a un’organizzazione di categoria come la Coldiretti, che dovrebbe informare i suoi associati. «Non conosco la Farm to fork. Per noi piccole aziende con poca manodopera è difficile essere informati su cosa accade in Europa e su tutti gli incentivi», racconta a Irpi Gabriele, che gestisce un’azienda agricola di famiglia. «Noi dobbiamo preoccuparci di mandare avanti l’azienda e anche le nostre vite. Non so cosa propongano in Commissione, ma spero che qualcuno faccia i nostri interessi», ha aggiunto. «Mi sembra strano che non ci sia informazione a riguardo», afferma Paolo Di Stefano, dall’ufficio di Coldiretti a Bruxelles, «la nostra comunicazione mi sembra efficace ma non mi stupisce che gli agricoltori non colleghino direttamente le misure di cui parliamo con i lavori del parlamento europeo».

Ma a farsi portavoce delle istanze dei piccoli produttori in Europa sono state proprio le associazioni di categoria, di cui fanno parte grandi aziende agroalimentari. Per queste, la porta della Commissione europea sembra essere sempre spalancata. La Farm to fork è stata infatti attaccata dai gruppi di interesse degli agricoltori e dei produttori di carne, al cui fianco si sono schierati i giganti dell’industria dei pesticidi.

Le lobby temono che la strategia porti a una diminuzione della produzione. Per questo chiedono alla Commissione europea una valutazione d’impatto, preoccupati dalla perdita di competitività delle aziende europee sul mercato agroalimentare. Il loro obiettivo era far arrivare in parlamento europeo un testo che di fatto è un compromesso al ribasso: «Devo dire che siamo riusciti a fare un bel lavoro con il parlamento europeo, quello che è uscito è un testo molto più moderato, dove le nostre istanze sono passate», ha confermato a IrpiMedia Michele Spangaro di Assica, l’Associazione industriali delle carni e dei salumi che, come organizzazione di categoria, tutela una parte degli allevatori di bestiame iscritti a Confindustria.

La strategia

Copa-Cogeca, l’Unione europea delle organizzazioni professionali di agricoltori e delle cooperative agricole è il più grande gruppo lobbistico in Europa per la difesa dell’agribusiness, di cui fanno parte, tra gli altri, anche Coldiretti e la Cia, la Confederazione italiana agricoltori. Intervistata da Irpi, la Cia ha voluto ricordare che «studi importanti, non ultimo quello commissionato dal Copa-Cogeca, dimostrano che gli obiettivi della Farm to fork incidono negativamente sull’agricoltura europea, con un aumento dei costi di produzione e dei prezzi del prodotto finale, condizionando le scelte dei consumatori e agevolando il mercato dei prodotti importati». Il 27 settembre scorso, a pochi giorni dal voto in Commissione, Copa-Cogeca ha dato indicazioni a numerosi europarlamentari, che hanno così deciso di presentare sei emendamenti al testo, uno dei quali si propone di eliminare l’aggettivo «vincolante» dagli obiettivi della riforma.

Questi emendamenti, votati ieri dal parlamento che questa mattina comunicherà l’esito della votazione, sono il risultato di un accordo con le commissioni Agricoltura e Ambiente. Nella prima siede, tra gli altri, il deputato italiano Herbert Dorfmann, del Partito popolare europeo, uno dei due relatori del testo sulla F2f. Proprio lui è il primo firmatario di un emendamento che richiede al parlamento una valutazione di impatto della misura, mostrandosi in linea con le posizioni delle associazioni di categoria. Ad accompagnare le attività di Copa-Cogeca troviamo anche CropLife Europe e European livestock voice (di cui fa parte Assica), altre due lobby che hanno commissionato rispettivamente uno studio e prodotto una massiccia campagna informativa online.

Anche Confragricoltura, un altro partner di Copa-Cogeca, tramite la sua responsabile a Bruxelles Cristina Tinelli, fa sapere che sono mesi che viene richiesta una valutazione d’impatto olistica alla Commissione. Come dichiarato a IrpiMedia, Confagricoltura vorrebbe «che gli agricoltori continuassero a produrre cibo e a vivere di questo e non di soli sussidi. Vogliamo continuare a essere competitivi sul mercato». Questo approccio però, ha portato il settore alle sue attuali condizioni di insostenibilità ambientale.

Gli studi

Per rafforzare le loro posizioni, le lobby hanno commissionato vari studi. Il primo, il 9 settembre, è stato finanziato dal Grain club, organizzazione dell’agribusiness tedesca attiva nel settore dei cereali e dell’alimentazione animale, e condotto in tandem con i ricercatori dell’università di Kiel. Un aspetto fondamentale evidenziato dallo studio è la consistente riduzione della produzione agricola nell’Unione europea del 21,4 per cento per i cereali e del 20 per cento per le oleaginose, come colza e semi di girasole. Per la carne bovina la riduzione sarà del 20 per cento. La ricerca commissionata da CropLife Europe e condotta dall’università olandese di Wageningen individua invece una riduzione della produzione agricola in una forbice tra il 10 e il 20 per cento, addirittura del 30 per cento per alcuni cereali.

Ultimo, in ordine di pubblicazione, è lo studio condotto dal Joint research centre (JRC) della Commissione europea a fine luglio e reso pubblico a ottobre, che dipinge un quadro estremamente negativo della produzione agricola e del bestiame, con conseguente aumento dei prezzi delle materie prime sia per il mercato interno che per quello diretto all’estero dall’Europa. Il tema dell’aumento dei prezzi è ricorrente in tutti gli studi sopra citati. Quello di Wageningen ipotizza un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli del 13 per cento e l’università di Kiel del 12-18 per cento per quanto riguarda i prodotti vegetali e del 58 per cento per la carne bovina. Come riporta Politico.eu, Marco Contiero, direttore delle politiche agricole per Greenpeace, ha accusato Copa-Cogeca e CropLife di condurre «una campagna di disinformazione basata su dati parziali e incompleti, studi autofinanziati e spazi nei media acquistati per veicolare i loro messaggi». Copa-Cogeca ha risposto definendo la sua strategia come «normale advocacy».

Gli studi si basano tutti su un modello, il Capri model, utilizzato ormai da più di dieci anni per l’analisi quantitativa dei dati relativi all’agricoltura europea. Quantitativa, non qualitativa. Lo studio del Jrc specifica che l’impatto delle misure concernenti la preservazione della biodiversità e la riduzione delle emissioni inquinanti non sono stati presi in considerazione per la stesura del testo. Inoltre, il Jrc stima una riduzione delle emissioni inquinanti di almeno il 20 per cento.

Jeroen Candel, professore alla Wageningen University, in un thread su Twitter ha scritto: «Sebbene i ricercatori riconoscano che i benefici del clima e della biodiversità non sono stati inclusi, è proprio a questo che è destinata l’intera strategia». E, continua, «conducendo la ricerca in questo modo, non sorprende che tali studi siano usati come munizioni contro la Farm to fork dalle forze dello status quo».

I piccoli allevatori

Un punto non preso in considerazione da nessuna delle associazioni di categoria intervistate da Irpi riguarda proprio gli aspetti positivi valutati dallo studio dell’università di Kiel per i piccoli allevatori. Riducendo la produzione intensiva si riduce di conseguenza la quota del mercato occupato dalle grandi aziende, conseguentemente, assieme a un inevitabile aumento dei prezzi, si liberano fette di mercato per le piccole aziende che già producono e vendono a prezzi più alti. Confagricoltura e Assica, alla richiesta di commento a riguardo, hanno riferito di essersi concentrati su altre sezioni degli studi. «Non ci avevo fatto caso. Ho i miei dubbi, di solito i piccoli sono sempre i primi a sparire», sostiene Michele Spangaro.

I piani europei dovrebbero andare di pari passo con gli obiettivi mondiali nella riduzione delle emissioni di CO2 e nella lotta all’insicurezza alimentare. Lo afferma anche l’europarlamentare Herbert Dorfmann: «Tutto questo può funzionare solo se il consumatore sta dalla parte giusta. Se continua a chiedere prodotti di bassa qualità a basso prezzo la strategia rimane una bella strategia ma niente di meglio».

La maggioranza dei piccoli allevatori e agricoltori intervistati da IrpiMedia non sono preoccupati dal possibile aumento dei prezzi. «Se fanno costare il pomodoro due euro al chilo io sono felice perché tanto comunque a cinque li vendo. Il piccolo produttore non ha nessun problema con questa iniziativa», sostiene Alessandro Giuggioli, fondatore dell’azienda Quintosapore a Città della Pieve (Pg).

Anche la riduzione dei pesticidi e l’incremento delle terre destinate al biologico non sembrano spaventare, perché molte aziende di piccole e medie dimensioni già producono in maniera sostenibile. L’Italia ha una percentuale di campi bio che sfiora il 16 per cento, il doppio rispetto alla media europea, secondo i dati Sinab, «non usiamo antibiotici, conservanti, i nostri prodotti sono già dal produttore al consumatore, quindi anche i costi della nostra frutta e verdura sono già più alti. Ovviamente, alla grande distribuzione questo non piace perché loro vincono se i prezzi sono più bassi», dice Valentina Pallavicino, che lavora nell’azienda CuorOrto di Sezze (Lt).

Lo scetticismo subentra quando si prendono in esame alcuni dei possibili effetti secondari, come lo spostamento della produzione verso paesi terzi, soprattutto se il consumatore non sarà disposto a supportare l’aumento dei prezzi. «Il problema è essere autosufficienti come territorio, come Europa, perché poi se importiamo la soia e la carne dall’Argentina e dal Brasile ci puliamo la coscienza», pensa Daniele Colognesi, allevatore de La torre di Colognesi (Anguillara Sabazia-Roma). Emanuele Pullano, dipendente dell’Orto di Fabiana (Roma), è convinto che con una maggiore sensibilizzazione le persone accetteranno di pagare di più per un prodotto più sano.

Massimo Nesta, allevatore dei Fratelli Nesta di Magliano Sabina (Ri), invece non ritiene che sia il momento di alzare i prezzi e ha paura che la grande distribuzione faccia ancora «da padrona». La sua rassegnazione è giustificata dall’impatto che ha avuto storicamente la Politica agricola comune (Pac) su aziende come questa. Nata nel 1962 con l’intento di promuovere l’autosufficienza alimentare dell’Europa, la Pac ha premiato metodi di coltivazione e allevamento sempre più intensivi e industrializzati, penalizzando i piccoli produttori. Secondo un’analisi del Guardian, circa l’80 per cento dei 40 miliardi di euro di sussidi diretti della Pac 2013-2021, uno dei pilastri della misura, è finito in mano al 20 per cento degli agricoltori.

Allevamenti in calo

Mentre il numero di capi di pollame e bestiame tra il 2005 e il 2016 è aumentato, quello degli allevamenti è diminuito drasticamente, segno di un rafforzamento della produzione intensiva concentrata in poche aziende. Nello stesso periodo infatti, il numero complessivo di attività agricole è passato da 14,5 a 10,3 milioni. Solo in Italia è andato perduto il 76 per cento degli allevamenti di suini, una decrescita in atto in tutti paesi europei da decenni, ma che ha colpito in modo particolare i paesi orientali dal loro ingresso nell’Unione: la Bulgaria e la Slovacchia hanno perso il 72 per cento dei loro allevamenti di bestiame e pollame, l’Ungheria il 48 per cento.

Gli agricoltori e gli allevatori europei hanno ottenuto finanziamenti sulla base degli ettari posseduti, per una media di 267 euro per ettaro. In Germania, che in totale ha ricevuto oltre 6 miliardi dei 40 della Pac, questo sistema si è tradotto in sussidi da oltre un milione di euro per 125 aziende. «Tante persone, come il mio vicino di azienda, hanno terreni su cui non coltivano e a fine anno prendono i finanziamenti della Pac. In molti agiscono in questo modo», denuncia Giuggioli. La scomparsa dei piccoli produttori ha portato il commissario europeo per l’Agricoltura, Janusz Wojciechowski, a fare autocritica, come ha dichiarato al Guardian: «La mia intenzione è che questo processo di scomparsa delle piccole aziende agricole venga fermato. Il settore alimentare europeo in passato si basava su di loro e dovrebbe farlo anche in futuro».

In questo contesto si inserisce la nuova Pac 2023-2027, con un accordo provvisorio raggiunto dai ministri dell’Agricoltura dell’Ue con il parlamento europeo a giugno di quest’anno. Il piano godrà del maggior finanziamento di sempre, oltre 386 miliardi di euro, diviso tra aiuti diretti, di cui il 25 per cento sarà dedicato agli eco-schemi – le pratiche di agricoltura considerate sostenibili – e ai piani di sviluppo rurale, ma manca ancora il voto definitivo, previsto per la sessione plenaria del parlamento a fine novembre.

La nuova Pac, che entrerà in vigore nel 2023 dopo due anni di transizione, avrebbe dovuto fissare il massimale a 100.000 euro su proposta del parlamento, nonostante alcuni gruppi, come i Verdi, avessero chiesto di abbassarlo a 60.000. Tuttavia, il Consiglio europeo si è opposto al limite obbligatorio. Gli stati membri, che potranno comunque inserire il tetto nei loro piani strategici, dovranno semplicemente orientare il 10 per cento dei pagamenti diretti alle aziende agricole di piccole e medie dimensioni. «L’accordo trovato dalle istituzioni europee sulla nuova Pac mantiene pressoché inalterato lo status quo, ovvero un modello di distribuzione dei sussidi agricoli che, essendo basato sugli ettari di terra posseduti, premia le aziende agricole più grandi», dice a IrpiMedia l’europarlamentare dei Verdi Eleonora Evi.

Sulla questione del limite ai sussidi, le grandi lobby del settore, come Copa-Cogeca, si sono espresse contrariamente già a partire dal 2018, in una riunione bilaterale con la Direzione generale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. A luglio del 2020, Copa-Cogeca ha ringraziato in un tweet la presidenza tedesca dell’Ue per aver incontrato i loro dirigenti poco prima della riunione del Consiglio, in cui i paesi dell’Ue hanno concordato una posizione a favore del tetto volontario delle sovvenzioni, sostenuta in Italia anche da Confagricoltura. «Noi ci siamo sempre espressi in modo contrario a questo tetto, ma il principio è passato in modo facoltativo», afferma Cristina Tinelli. Tra il 2023 e il 2025 anche la condizionalità sociale, le misure per assicurare che i fondi non vadano alle aziende che violano i diritti dei lavoratori, sarà volontaria e non obbligatoria.

«Dopo aver vinto la battaglia sulla Pac, gli sforzi si sposteranno ora sulla Farm to fork, nel tentativo di svuotarla della sua ambizione e lasciare sulla carta i suoi target», sostiene Evi. Nel testo della nuova Pac non c’è alcun riferimento al Green deal, con il rischio, secondo l’europarlamentare dei Verdi, che gli obiettivi della Farm to fork finiscano per essere slegati dai finanziamenti europei: «Avevamo proposto di allineare la Pac agli obiettivi del Green deal europeo, in modo che i quasi 400 miliardi di euro di sussidi agricoli della Pac venissero erogati coerentemente con il raggiungimento di questi obiettivi. Purtroppo così non è stato». La Farm to fork di per sé non è vincolante. La Commissione adesso dovrà presentare delle proposte legislative per tradurre gli obiettivi della strategia in target giuridicamente vincolanti che saranno poi gli stati membri a dover implementare. Un processo che vedrà compimento soltanto tra qualche anno. Le lobby si dicono già pronte a intervenire come afferma Michele Spangaro: «Qui si sta decidendo quale sarà il modello di produzione alimentare che prevarrà. La vera guerra, la vera sfida è lavorare sui testi legislativi quando usciranno. Stiamo già lavorando affinché vengano presentati nel miglior modo possibile, ma poi ci sarà tutto l’iter legislativo e dovremo intervenire».

Questa inchiesta è stata realizzata da Lighthouse Reports in collaborazione con Domani, Irpi, Mediapart, Deutsche Welle e Follow the Money.

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