La scadenza per trovare l’accordo è il 14 agosto, ma il testo è bloccato anche sui punti fondamentali. Ue, Africa, America Latina e altri chiedono che il trattato copra l’intero ciclo di vita del materiale, la cui produzione triplicherà entro il 2060, secondo le stime. Mentre gli stati che producono idrocarburi mirano a compensare il calo della domanda di combustibili fossili con l’espansione del mercato della plastica. I tre scenari
A poche ore dalla scadenza del 14 agosto, i negoziati Onu a Ginevra per il primo trattato globale giuridicamente vincolante contro l’inquinamento da plastica sono ancora vicini al collasso. Il testo, nato dal mandato conferito nel 2022 dalla quinta Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unea-5.2), è bloccato da oltre 1.500 sezioni tra parentesi quadre: in gergo negoziale, significa che non c’è accordo nemmeno su punti fondamentali.
Rispetto al fallimentare round di dicembre 2024 a Busan, in Corea del Sud – dove le divisioni avevano già paralizzato i lavori – il documento si è persino allungato, segno di un braccio di ferro che non si è mai fermato.
I due fronti
Da una parte, il fronte guidato dall’Unione europea, insieme a Africa, America Latina e piccoli Stati insulari, chiede che il trattato copra l’intero ciclo di vita della plastica: dalla produzione alla progettazione dei prodotti, fino al loro smaltimento. Le proposte includono tetti vincolanti alla produzione di polimeri vergini (cioè la plastica prodotta per la prima volta, non riciclata), divieti per le sostanze chimiche più tossiche, regole globali per rendere riutilizzabili o riciclabili i prodotti, e un fondo economico dedicato per aiutare i paesi del Sud globale a fare questa transizione.
Sul lato opposto, il “Like-Minded Group” – Russia, Arabia Saudita, altri paesi produttori di petrolio, Cina e India – con l’appoggio degli Stati Uniti dell’amministrazione Trump, punta a un testo limitato alla sola gestione dei rifiuti e al riciclo, evitando qualsiasi limite alla produzione. Un’impostazione che, secondo il Center for International Environmental Law, riflette la strategia dell’industria petrolchimica: compensare il calo della domanda di combustibili fossili con l’espansione del mercato della plastica, alimentata proprio da questi polimeri vergini.
Le stime dell’Ocse sono nette: senza interventi “a monte” (cioè alla fonte, prima che la plastica venga prodotta), la produzione mondiale potrebbe triplicare entro il 2060, raggiungendo 1,7 miliardi di tonnellate l’anno. Oggi meno del 10 per cento della plastica viene effettivamente riciclata e il tasso reale scende ancora di più per le plastiche miste o complesse. Per gli scienziati, intervenire solo “a valle” – cioè sul rifiuto già prodotto – non basta: se il rubinetto resta aperto, il flusso continuerà ad aumentare.
Sul negoziato pesa una presenza industriale senza precedenti: 234 lobbisti del settore petrolifero e petrolchimico sono accreditati, 19 dei quali inseriti nelle delegazioni ufficiali. Sono più di tutti i rappresentanti dei 27 paesi dell’Ue messi insieme. Greenpeace parla di «sproporzione che mette in crisi la credibilità del negoziato». Le ong ricordano il precedente della Convenzione quadro dell’Oms sul tabacco, che escluse l’industria dal processo per evitare conflitti di interesse. Qui invece le aziende sono presenti, organizzano eventi paralleli e spingono soluzioni alternative.
L’Italia aderisce ufficialmente alla cosiddetta High Ambition Coalition, il gruppo di paesi più ambiziosi sul tema, ma nelle scelte interne invia segnali contraddittori. Sostiene in sede Onu limiti alla produzione e divieti sugli additivi tossici ma ha rinviato al 2026 l’entrata in vigore della “plastic tax” – un prelievo di 0,45 euro al chilo su bottiglie, stoviglie monouso e imballaggi non riutilizzabili – e ha recepito la direttiva europea sugli oggetti in plastica monouso (Sup) inserendo deroghe per le bioplastiche compostabili, oggi sotto procedura d’infrazione di Bruxelles. Il tasso di riciclo della plastica è al 50 per cento – in linea con il target Ue – ma secondo il Consorzio nazionale imballaggi (Conai) oltre metà riguarda frazioni miste, con resa limitata; il riuso rimane marginale.
Gli scenari
Sul tavolo ci sono tre scenari: un compromesso minimo, con un testo “ombrello” limitato a rifiuti e riciclo e liste volontarie di sostanze; un rinvio della decisione a future conferenze; o un accordo separato fra i paesi della High Ambition Coalition, con standard comuni e possibili vincoli commerciali. Per i piccoli Stati insulari e molti paesi del continente africano, dove la plastica danneggia direttamente pesca, turismo e salute pubblica, un trattato senza limiti alla produzione sarebbe, come ha detto il rappresentante di Palau, «la fine della credibilità di questo processo».
I nodi più difficili restano tre: i tetti alla produzione (fissati globalmente o su base nazionale), la gestione di sostanze e additivi (liste comuni aggiornate in base alle evidenze scientifiche) e il finanziamento dell’attuazione (nuovo fondo dedicato o fondi esistenti come il Global Environment Facility).
Su tutti, il testo presenta ancora versioni alternative. Se il negoziato fallisse, resterebbe l’opzione di un “club” dei paesi più ambiziosi, che imporrebbe regole su contenuto riciclato, responsabilità estesa del produttore e requisiti di import: norme che colpirebbero anche gli esportatori italiani.
La commissaria europea Jessika Roswall lo ha detto senza giri di parole: «Non possiamo perdere questa opportunità storica». Ma con il principio del consenso trasformato in uno strumento di veto da parte di pochi e un testo che rischia di essere privato delle misure più vincolanti, il trattato potrebbe nascere già svuotato, ridotto a un documento simbolico incapace di incidere su uno degli inquinanti più persistenti e pervasivi del XXI secolo.
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