Il 1° gennaio è partito definitivamente l’assegno unico ed universale (Auu): un primo fondamentale tassello di una politica familiare coerente e moderna che a questo paese manca, per una volta sostenuta da tutte le forze politiche.

Eppure questa misura per tanti aspetti buona è per altri versi al di sotto di quanto sarebbe stato necessario fare. L’assegno è infatti inutilmente complicato e paternalista, è contraddittoriamente progressivo e con importi inadeguati per la classe media.

Il bicchiere mezzo pieno

Le cose buone di questo assegno ci sono e vanno sottolineate. È una misura unica nel senso che sostituisce una giungla di misure parziali preesistenti. Questo sicuramente semplifica almeno un po’ la comprensione dello strumento da parte del cittadino.

È una misura universale, nel senso che viene erogata a tutti i genitori, indipendentemente dal loro lavoro o dalla loro capienza fiscale. È tutto sommato generosa per la fascia di reddito più bassa e verso gli autonomi. Una famiglia con redditi particolarmente bassi e con quattro figli può percepire 250 euro al mese per ciascun figlio; un importo che facilmente supera il totale delle imposte pagate da quello stesso nucleo.

Questa è una cifra che non sfigura anche rispetto agli altri paesi europei più avanzati. Per fare un paragone, in Germania sarebbero 220 euro per ciascun figlio.

In generale, secondo le ultime stime dell’ufficio parlamentare di bilancio, il 60 per cento delle famiglie trarrà almeno qualche vantaggio rispetto a prima, un 10 per cento di famiglie per lo più con redditi e/o patrimoni alti, finirà con il rimetterci e per il rimanente la situazione sarà sostanzialmente invariata.

Un altro aspetto da sottolineare è che l’assegno viene dato a partire dal settimo mese di gravidanza, riconoscendo così al bambino non ancora nato una titolarità di interessi economici pubblicamente rilevanti. E quindi cosa c’è che non va nell’Auu?

Il bicchiere mezzo vuoto

Le parole sono importanti e forse chiamare questo strumento assegno ha causato una serie di conseguenze, quasi tutte negative. La parola assegno evoca l’idea di un trasferimento, una elargizione dello stato nei confronti delle famiglie.

Mette le famiglie in posizione di sudditanza e lo stato in una posizione di forza. Ben diversa la percezione quando parliamo di detrazioni, dove lo stato si astiene dal prelievo fiscale per una questione di equità orizzontale.

La conseguenza negativa dell’aver impostato la questione come un trasferimento è che rende quasi naturale accettare che l’assegno decresca al crescere del reddito. Se infatti i figli vengono spesso messi in relazione con la povertà delle famiglie, e se l’assegno è un aiuto per contrastare questa povertà, perché mai si dovrebbero aiutare i ricchi? Ma questa logica è fallace.

Discende da un fraintendimento, molto comune in Italia, che scambia le politiche familiari per politiche di contrasto alla povertà per le quali abbiamo già il reddito di cittadinanza. Per le prime, invece, in tutti i paesi sviluppati si fanno assegni di importo fisso, il cui ammontare non decresce al crescere del reddito; oppure si fanno misure fiscali (detrazioni, quozienti) che per loro natura crescono in valore assoluto al crescere del reddito.

Con l’Auu saremo sostanzialmente l’unico paese europeo ad avere una politica familiare progressiva. Un primato non invidiabile perché frutto di un equivoco. La progressività introdotta sull’assegno è un’anomalia non solo nel contesto europeo ma anche in quello italiano. Negli ultimi due anni sono stati istituiti bonus di ogni tipo: per le terme, per le auto elettriche, per la ristrutturazione di condomini e villette, per i monopattini e per l’acquisto di mobili e rubinetti e via discorrendo. Tutti bonus dati in maniera lineare a ricchi e poveri.

Questo perché la ratio di questi bonus è quella di incentivare la diffusione di pratiche e tecnologie migliori. Solo l’Auu è un trasferimento progressivo che dipende dal reddito.

Ma la logica delle politiche familiari non è esattamente la stessa dei vari bonus? L’assegno unico non dovrebbe essere (anche) in fondo un incentivo alla natalità di tutti i potenziali genitori, visto anche il freddissimo inverno demografico che stiamo vivendo? Evidentemente non lo sarà, almeno per le fasce di reddito più elevate, per le quali fare o non fare figli farà pochissima differenza dal punto di vista fiscale. Se lo avessimo chiamato Bonus Natalità il messaggio sarebbe passato meglio e si sarebbe fatta la misura semplice e lineare che in molti chiedevano.

Complicazioni

Un’altra conseguenza negativa collegata a questa è che l’Auu che dipende dal reddito è una misura alquanto complicata.

È Unico si, ma per saperne l’importo bisogna recarsi ad un Centro assistenza fiscale (Caf) per calcolarsi il famigerato Indice della situazione Economica Equivalente (Isee) e poi fare domanda all’Inps. Ci vorranno mesi per ottenere l’Isee e settimane per avere la risposta dall’Inps. E se la domanda non viene fatta, niente assegno.

Abbiamo sostituito una giungla di norme che prevedevano almeno qualche beneficio semplice da ottenere con una sola che però richiede un certo sforzo.

È facile prevedere che le famiglie più marginali, quelle per le quali l’assegno sarebbe una fonte importante di sostentamento primario, in buona parte nemmeno presenteranno domanda. Non siamo profeti di sventura: purtroppo è già successo con la misura temporanea in vigore da giugno.

Questo rapporto sbilanciato tra famiglie che chiedono attraverso una domanda complicata l’assegno e uno stato che si prende settimane per rispondere è forse un problema minore ma è sintomatico di quanto questo paese non abbia ancora compreso la portata della crisi demografica che sta già attraversando.

Un assegno semplice e lineare sarebbe potuto essere erogato in automatico al momento della registrazione all’anagrafe. Sappiamo bene che la natalità è un fenomeno complesso i cui trend non si invertono nel breve periodo con dei semplici incentivi economici.

Le politiche familiari sono complesse e una buona politica fiscale a favore della famiglia è una condizione necessaria ma non sufficiente. Già un assegno fatto a regola d’arte avrebbe richiesto tempo per farci uscire dall’inverno demografico; quest’assegno rischia di non avere impatto alcuno. Naturalmente ci auguriamo di sbagliare. 

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