Il bonus da 200 euro promesso dal governo Draghi a dipendenti e lavoratori autonomi per fare fronte alla crescita dell’inflazione aggravata dalla crisi in Ucraina è, seppur misero nella quantità, una delle ultime manifestazioni di quello che potremmo definire lo “stato bancomat”: il modo in cui negli ultimi anni i governi occidentali cercano di risolvere problemi sociali e far ripartire l’economia attraverso trasferimenti e bonus del tipo più diverso.

Come ha segnalato uno studio dell’Ocse, a partire dalla pandemia, in molti paesi occidentali si è assistito a una «massiccia espansione dei sistemi di protezione sociale». Dopo anni di progressivi tagli alla spesa sociale vediamo una parziale inversione di rotta.

Tuttavia, molti di questi interventi sono misure ad hoc di tipo emergenziale; una cura sintomatica ai problemi sociali e alla povertà crescente, in quello che viene descritto da autori come Anton Jäger and Daniel Zamora come un «welfare senza il welfare state», a cui manca una strategia di più ampio respiro che affronti alla radice le loro cause.

Gli esempi statunitensi

A segnare l’inizio di questo “stato bancomat” sono stati paradossalmente gli Stati Uniti, che da Reagan in avanti avevano visto un progressivo sfoltimento dello stato sociale alla cui costruzione nei decenni precedenti avevano contribuito non solo politici democratici come Roosevelt e Johnson ma anche repubblicani come Eisenhower e Nixon.

Simbolo di questa inversione di tendenza gli assegni (i famosi “stimulus checks”) recapitati ai cittadini statunitensi in tre diverse tornate. La prima nell’aprile 2020, a inizio pandemia, sostenuta da Trump come parte del CAREs Act, offriva 1200 dollari a tutti i cittadini statunitensi che guadagnavo meno di 75.000 dollari, e 500 dollari ai minori di 16 anni loro dipendenti. La seconda, nel dicembre 2020 con un altro assegno da 600 dollari, più 600 per ogni figlio. La terza, sotto Biden come parte del suo America rescue plan offriva un altro assegno da 1400 dollari.

Si tratta di uno schema inedito, quantomeno in decenni recenti, che si avvicina a quella “helicopter money” (ovvero soldi a pioggia come quelli gettati da un elicottero), che anche l’ex governatore della Fed Ben Bernanke aveva visto come una possibile soluzione a momenti di crisi. 

Le misure in Italia

In Italia non abbiamo avuto un vero e proprio assegno universale ai cittadini come quello visto negli Stati Uniti, ma interventi di sostegno più circoscritti e una fioritura di bonus del tipo più diverso, per sostenere i redditi e i consumi. A marzo 2020 il governo Conte II offrì un bonus da 600 euro per i professionisti iscritti a casse di previdenza sociale private, a cui seguì un altro pacchetto con il decreto di agosto dello stesso anno che copriva altre categorie come i lavoratori dello spettacolo, gli stagionali del turismo.

Il governo, al contrario di quello Usa non prevedeva nessun bonus specifico per i lavoratori dipendenti; ma prima dell’esplosione della pandemia il governo Conte II aveva portato a 100 euro il bonus dei famosi 80 euro di Renzi, mentre il Conte I aveva creato il reddito di cittadinanza. E durante la pandemia fu anche istituito un reddito di emergenza tra 400 e 800 euro per le famiglie in difficoltà.

In piena pandemia, più che altro, abbiamo anche assistito a un fiorire di sussidi per sostenere consumi e investimenti, dal famoso bonus facciate – che recentemente Draghi ha criticato davanti al parlamento europeo – al bonus per l’acquisto dei monopattini, al cashback che prevede una restituzione dell’importo speso del 10% per spese fatta con carta bancomat e carta di credito, dopo essersi registrati con l’app Io.

Il dibattito

Questi vari interventi sono diventati oggetto di attacco da parte di Confindustria che, per voce del suo segretario Bonomi, li ha descritti come manifestazione di un “Sussidistan”, ovvero un nuovo stato assistenzialista che elargisce soldi alle famiglie, alimentando così la pigrizia: accusa già diretta contro il reddito di cittadinanza.

Questa critica è discutibile, perché se si guarda agli interventi degli ultimi anni e della pandemia, risulta che il governo è stato spesso più generoso negli aiuti garantiti alle imprese, piuttosto che in quelli alle famiglie, e che a giovare della spesa delle famiglie sono in fin dei conti le stesse imprese.

Tuttavia, anche da una prospettiva socialdemocratica, ci sono diverse ragioni per muovere critiche allo “Stato bancomat”. Non c’è dubbio che molti degli interventi di sussidio alle famiglie, specie quelli universali come fatto negli Stati Uniti, erano una misura necessaria sia per salvare le persone dal lastrico che per sostenere una domanda aggregata messa in grave difficoltà. Ma queste misure sono un modo emergenziale per tamponare situazioni di fallimento di mercato senza affrontare questioni più strutturali che sono alla radice della crescente povertà. 

Prima di tutto, in molti paesi queste non sono state accompagnate da investimenti adeguati nella sanità e nell’educazione, forme di consumo collettivo, invece che consumo individuale come quello sostenuto dai “cash transfers”. In secondo luogo, queste misure spesso non sono state accompagnate da politiche di indirizzo che permettessero loro di contribuire a obiettivi più complessivi e di lungo periodo di trasformazione del sistema economico.

Nel caso del cashback, c’era in parte questo elemento nel modo in cui favoriva il commercio locale, rispetto alle piattaforme digitali come Amazon (dato che la misura inizialmente escludeva gli shop online), e contribuiva alla lotta all’evasione oltre a spingere i cittadini a iscriversi all’app Io. Tuttavia, i suoi effetti distributivi erano molto discutibili. Infine, la politica dei sussidi di emergenza mette in luce il bisogno di interventi più strutturali di riforma dello stato sociale, per garantire sostegno di lungo periodo invece di doversi trovare ogni volta a fare interventi una tantum.

In senso più generale, limitare l’intervento dello stato a trasferimenti monetari può diventare una scusa per l’incapacità della politica di fornire opportunità di impiego alla popolazione. Purtroppo, fare questo non è affatto facile: perché non bastano interventi tampone, ma servirebbero politiche industriali coraggiose e una visione di lungo periodo, che sembra continuare a mancare alla nostra classe politica.

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