I Bitcoin sono un oggetto dotato di proprietà particolari. Ad esempio, più qualcuno cercherà di spiegarvi cosa sono e come funzionano e meno capirete del loro funzionamento. Sono monete digitali, ma allora perché non posso spenderle nemmeno in un negozio online? E perché se esistono solo su internet, sono contemporaneamente una grossa fonte di inquinamento? E perché nelle ultime settimane si è tornato a parlarne, tirando in mezzo il miliardario Elon Musk e il governo cinese?

Cosa sono?

Se spiegare troppo i Bitcoin porta inevitabilmente a complicarli parecchio, la cosa migliore è rimanere molto semplici. Le sfaccettature e le complessità delle monete virtuali sono un pozzo senza fondo nel quale basta poco per cadere e perdersi per sempre. Un esempio tipico di questa complessità è la famigerata e importantissima «blockchain», una particolare tipologia di database condivisa e non alterabile che viene utilizzata dalle monete virtuali in modo decentralizzato in modo che nessuna singola persona ne abbia il controllo.

Quindi: i Bitcoin sono una moneta digitale basata su una complicata serie di tecnologie informatiche che servono ad assicurare la certezza delle transazioni, a mantenere il numero entro certi limiti e ad assicurare che la loro proprietà sia certa (cioè evitare che due persone si trovino a possedere lo stesso Bitcoin).

Tutte queste tecnologie che garantiscono tali servizi fondamentali sono «decentralizzate»: non esiste nessuna istituzione pubblica o privata che sovrintende ai Bitcoin, ma le tecnologie su cui si basano sono state elaborate una decina di anni fa da un misterioso gruppo di persone e ora operano in maniera autonoma. Il network funziona grazie agli estrattori (tra poco vedremo cosa significa questo termine).

L’idea originaria dei Bitcoin, e quella che sostengono ancora i più idealistici dei suoi sostenitori, era la realizzazione di un sogno anarco-capitalista: la creazione di una moneta totalmente fuori dal controllo di stati e banche centrali, considerati nemici giurati dai più estremisti dei libertari (a questo proposito, ci sono diverse curiose sovrapposizioni tra «bitcoiners» e sostenitori complottisti di Donald Trump).

Oltre ai Bitcoin esistono decine di altre monete virtuali che funzionano sulla base di principi simili e spesso sono basate sulle stesse tecnologie. Un modo di distinguerle è quella di dividerle tra quelle che sono ancorate a una moneta reale, di solito il dollaro americano, così da evitare eccessive fluttuazioni nel valore, le cosiddette «stable currencies», e le altre, quelle con il cui valore è libero di fluttuare.

Sono queste seconde a essere le più diffuse e quelle che sono diventate sinonimo di moneta virtuale. E tra loro i Bitcoin sono le più diffuse oltre a essere quelle con il valore più alto. Ethereum è stabilmente al secondo posto come moneta virtuale più scambiata.

Ma il sogno di trasformare queste «criptovalute», come si chiamano in gergo, in un’alternativa alla moneta coniata dagli odiati governi, non è così semplice. Oltre a quelli politici, ci sono anche problemi tecnici e ambientali.

Ad esempio, esiste un limite alla capacità della blockchain di gestire un numero crescente di transazioni. Più aumentano i Bitcoin in circolazione e più vengono scambiati e più il loro sistema di gestione decentralizzato si trova sotto pressione, con il rischio che ne risentano le prestazioni, cioè la rapidità di esecuzione delle transazioni stesse, ma anche i costi ambientali.

Quest’ultimo punto è il motivo per cui c’è forte preoccupazione per il consumo di elettricità dei processi tecnologici che rendono possibile l’esistenza delle criptovalute. Come vedremo meglio tra poco, i Bitcoin consumano da soli una quantità di energia pari a un paese di piccole dimensioni.

Secondo il Cambridge Center for Alternative Finance (Ccaf), ogni anno la gestione dei Bitcoin consuma circa 110 terawatt-ora all’anno, lo 0,55 per cento della produzione globale di elettricità, o all’incirca equivalente al prelievo energetico annuale di paesi come la Malesia o la Svezia.

«Boom and bust»

Un altro problema è che il valore delle criptomonete più diffuse, quelle non legate al valore di una moneta «reale», cambia con grande frequenza e con oscillazioni maggiori di quasi tutte le altre valute. Nel 2011, ad esempio, due anni dopo la sua introduzione, un Bitcoin valeva 0,32 centesimi di dollaro. Nel giro di qualche mese è salito a 32 dollari per poi ritornare quasi subito a 2 dollari. Un anno dopo, il suo valore è cresciuto fino a 266 dollari, per poi precipitare fino a 50.

Complessivamente, il valore di Bitcoin continua a crescere da dieci anni: questo ha creato sia vincitori, per esempio gli «early adopters», ossia i primi ad acquistare e conservare Bitcoin fin dall’inizio della loro diffusione, sia vinti, che si sono avvicinati al mercato delle criptovalute in momenti di alta fluttuazione del mercato. Negli ultimi anni infatti ci sono stati cicli di improvvisi rialzi seguiti da cadute verticali e recentemente il valore sembra in netta caduta.

L’ultimo di questi cicli si è verificato tra lo scorso inverno e l’inizio della primavera. L’inizio ha coinciso con l’annuncio di un investimento in Bitcoin da parte di Elon Musk, a cui ha fatto seguito quello della sua azienda, Tesla, che ha iniziato ad accettare pagamenti in Bitcoin per le sue automobili.

Musk è popolarissimo tra gli appassionati di criptomonete, e non solo. Ci sono molti altri fattori che possono spiegare il rialzo dei prezzi di Bitcoin (per esempio, in tempi di pandemia le banche centrali hanno aumentato molto la liquidità in circolazione e gli investitori sono da tempo alla ricerca di asset esotici e remunerativi in cui spendere i loro capitali), ma le parole di Musk sembrano aver influenzato il prezzo dei Bitcoin in più di un’occasione.

Che sia merito suo o meno, dall’inizio del 2021 le criptomonete hanno avuto un altro dei loro rapidi momenti di crescita esplosiva. Bitcoin, in particolare, è passata dai 32mila dollari di gennaio a oltre 60mila a marzo.

All’inizio di maggio, però, l’andamento del mercato ha avuto una brusca inversione e nel giro di pochi giorni il prezzo dei Bitcoin si è dimezzato, arrivando in alcuni momenti a scendere sotto i livelli di gennaio e portando a una complessiva cancellazione di 400 miliardi di dollari di valore.

Insomma, i Bitcoin e le altre criptomonete hanno anche un problema di eccessiva instabilità che le rende complicate da utilizzare come una moneta nella vita di tutti i giorni. Chi comprerebbe una televisione in Bitcoin sapendo che aspettando un po’ potrebbe comprarla per metà del suo valore? E viceversa, perché un commerciante dovrebbe accettare un pagamento in una moneta che in pochi giorni può perdere metà del suo valore?

In altre parole,

Bitcoin funziona da tempo più come un asset, un investimento da fare con attenzione, più che come una moneta, cioè una riserva di valore, utile allo scambio di beni e alla misurazione del loro prezzo.

E tra gli investimenti, è anche di un tipo particolarmente rischioso. Secondo una ricerca pubblicata a gennaio di quest’anno, la volatilità del Bitcoin è stimata essere dieci volte superiore a quella dell’oro. E se nel 2013 Forbes ha scritto che era l’investimento migliore dell’anno, nel 2014 Bloomberg rispondeva definendolo il peggiore.

Estrarre i Bitcoin

Ma da dove arrivano i Bitcoin in cui la gente investe? Si tratta di un altro aspetto particolarmente complesso di questa moneta digitale. I Bitcoin, come l’oro, si “estraggono” e chi si dedica a questa operazione si chiama «miner», ossia minatore.

La piccozza che si usa per questa operazione è un computer molto potente e il terreno in cui si scava sono quelle complicate operazioni di calcolo che sono necessarie a registrare le varie transazioni e che quindi consentono di mantenere in piedi la rete decentralizzata dei Bitcoin.

Come ricompensa per il lavoro fatto dai loro computer, questi sono automaticamente pagati in Bitcoin. Significa che per una certa quantità di operazioni eseguite, si riceve una di queste monete virtuali, in maniera del tutto automatica e sostanzialmente non alterabile.

Questo procedimento (effettuare complesse operazioni di calcolo con una ricompensa in Bitcoin) diviene sempre più difficile mano a mano che aumentano i Bitcoin in circolazione. Nei primi quattro anni di esistenza di Bitcoin, ad esempio, è stata estratta circa la metà del totale di Bitcoin, ma per concludere le estrazioni serviranno altri 120 anni. I Bitcoin sono infatti una risorsa «finita», c’è un limite massimo al numero di unità che possono circolare: 21 milioni.

Queste regole e quantità sono state fissate dai mitici, o dal mitico, inventore di Bitcoin, una figura, o un gruppo di figure, note solo con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto.

Questa regola, che prevede che estrarre Bitcoin richieda un numero sempre più elevato di calcoli, ha portato a un altro paradosso.

Oggi le «miniere» di Bitcoin sono costituite da enormi stanzoni pieni di scaffali alti fino al soffitto dove lavorano a pieno ritmo centinaia di calcolatori. Il loro consumo di energia è così intenso che le «miniere» vengono spesso costruite accanto a impianti idroelettrici, dove c’è un’abbondanza di energia elettrica e di acqua per raffreddare i computer che lavorano costantemente.

La Cina

E arriviamo alla stretta su tutto il mondo delle criptomonete decisa dalla Cina poche settimane fa e che, in qualche misura, sembra aver contribuito all’ultimo crollo nel loro valore.

A maggio, il governo ha ordinato a tutti i servizi di pagamento che operano nel paese di non trattare in criptomonete, un messaggio annunciato come un primo passo di un’azione più ad ampio raggio.

Il colpo più duro è arrivato venerdì 18 giugno, quando il governo ha deciso la chiusura di tutte le «miniere» di Bitcoin del Sichuan, la regione della Cina sud-occidentale ricca di fiumi e di centrali idroelettriche dove si erano concentrati gran parte dei «minatori» cinesi.

Il governo cinese non ha mai gradito i Bitcoin, considerati uno strumento pericoloso perché fuori dalla capacità di controllo delle autorità. Già nel 2017 era stata approvata una prima stretta che aveva costretto i cittadini cinesi interessati nelle criptovalute a fare complicate operazioni estero su estero per trattare Bitcoin e altre monete virtuali.

Questo però non ha impedito che nel paese si sviluppasse una fiorente industria «mineraria», grazie soprattutto al buon livello tecnologico del paese e al basso prezzo dell’energia.

Il governo cinese non ha esplicitato le ragioni della sua ultima stretta, ma sembra che alle preoccupazioni per l’esistenza di una moneta fuori dal controllo del governo si possano essere aggiunte anche quelle sul suo consumo energetico.

Gran parte degli analisti ritenevano che il picco di valore toccato tra gennaio e aprile non fosse sostenibile. È probabile quindi che le decisioni cinesi siano state soltanto l’innesco di una crisi pronta a scoppiare. Sta di fatto che a partire dai primi giorni di maggio, le criptovalute sono crollate e il Bitcoin è sceso sotto i 30mila dollari, un valore che non toccava da gennaio di quest’anno.

Ne sentiremo ancora parlare

Non sarà certo questo incidente a segnare la fine dei Bitcoin. Le bolle sono connaturate alla sua natura e quest’ultimo ciclo di boom e crollo non è particolarmente più grave dei tanti altri che si sono visti in precedenza. Inoltre, con le banche centrali di tutto il mondo che continuano a immettere sui mercati enormi quantità di denaro per tenere a galla l’economia colpita dal Covid-19, continuano a circolare enormi masse di denaro in cerca di destinazione. Ma la fase eroica delle criptomonete, quella in cui i pionieri di questo mondo misterioso immaginavano di sostituire catene virtuali alle banche centrali, riuscendo ad arricchirsi nel processo, sembra ormai terminata. Siamo in un momento nuovo, in cui le monete virtuali sono divenute un tipo diverso di investimento.

Per ora non è uno dei più semplici da comprendere e gestire e nemmeno dei più sicuri: fondi pensioni e risparmiatori prudenti preferiscono ancora titoli di stato e obbligazioni. E, problema non secondario, è anche un investimento problematico per l’ambiente.

 

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