Dopo la cesura della pandemia Federculture è convinta che sia giunto il momento per un nuovo contratto che unisca chi in Italia lavora nel settore della cultura. «Ora che la fase più acuta dell’emergenza sembra essere alle spalle, ci si può concentrare su interventi strutturali», dice Andrea Cancellato, presidente di Federculture, una delle associazioni datoriali più rappresentative del settore. Nel 1999 ha firmato l’unico contratto nazionale di lavoro per gli operatori culturali.

Entro la fine dell’anno l’associazione punta a chiudere il rinnovo del contratto attuale e nel 2022 si dedicherà alla stesura di uno nuovo, da applicare a tutti: dalle produzioni audiovisive agli spettacoli dal vivo, fino ai musei e alle imprese culturali in senso lato, comprendendo tutte le figure professionali e creandone di nuove.

In Italia il bacino della cultura conta 790mila occupati, di cui quasi la metà non dipendenti, secondo i dati Eurostat del 2020: «È uno dei settori più importanti dal punto di vista lavorativo. Ha a che fare con la coesione sociale e aiuta l’economia nazionale sul fronte del turismo, l’altra componente fondamentale dell’offerta complessiva del nostro paese», dice Cancellato. Secondo lui, è il momento di fare uno sforzo, a costo di arrivare a una semplificazione della rappresentanza.

Il contratto Federculture

C’è da chiedersi perché un eventuale contratto unico dovrebbe trovare più favore del contratto Federculture. Quando è stato approvato, mirava a diventare un riferimento per il settore, ma sulla sua reale applicazione non ci sono dati precisi. «È parecchio utilizzato, ma meno di quanto si dovrebbe e vorremmo», dice Cancellato.

L’associazione di lavoratori “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” ritiene invece che sia poco diffuso. «Oggi il Federculture è usato in meno del 10 per cento dei casi, dato che non è vincolante per legge, e l’applicazione dipende dalla buona volontà delle singole amministrazioni», fa sapere l’associazione. 

«Sarebbe bene che Federculture, invece di rivendicare un contratto unico che esiste da vent’anni, si battesse davvero per applicarlo per legge a tutti i lavoratori del settore. Andrebbero messi al bando contratti terribili, come il multiservizi, che oggi la fanno da padrone, con l’avallo di sindacati e amministrazione statale».

Contratti meno costosi

In nome della libera concorrenza, infatti, si sono lasciate le imprese in appalto libere di scegliere cosa applicare. Da lì è partita una corsa al ribasso, iniziata con il multiservizi, nato nel settore delle pulizie e molto in voga in musei e biblioteche, fino ad arrivare al contratto dei servizi fiduciari, usato nella vigilanza privata e applicato con disinvoltura agli addetti all’accoglienza dei musei pubblici.

A discapito di stipendi e diritti dei lavoratori, molte aziende hanno scelto contratti meno costosi del Federculture. «In realtà il nostro non è diseconomico per le imprese – lo difende Cancellato –, ma definisce in modo più preciso le figure professionali e impedisce di svalutare il lavoro delle persone con livelli non adeguati, che invece contratti generici in una certa misura consentono».

Un contratto per pochi

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Il costo ovviamente dipende dai livelli e dalle figure professionali. Nell’aggiornamento del 2018 la retribuzione tabellare andava dai 1.397 euro del livello A1, applicabile per esempio a operatori di sala e custodi, ai 1.809 del livello C3 applicabile a figure professionali tra cui gli archivisti, i bibliotecari e gli archeologi. Per poi salire ulteriormente per dirigenti e quadri.

Rimane una nicchia quella delle imprese che lo applicano: ha il Federculture, per esempio, Zètema, ex società privata ora controllata al 100 per cento da Roma Capitale, che gestisce i musei capitolini e i cui dipendenti provenivano dal pubblico impiego, mentre a Torino lo applica la Fondazione Torino Musei, voluta dal Comune. Ce l’ha anche il personale scientifico dipendente della Fondazione che gestisce i musei civici di Venezia, ma non chi all’interno degli stessi musei si occupa dei servizi al pubblico, contrattualizzati con cooperative che usano il multiservizi.

Niente più Federculture al Consorzio la Venaria reale in Piemonte, che, l’ha avuto per quattro anni e mezzo per poi sostituirlo con il multiservizi. Alberto Vanelli, che ne è stato il direttore fino al 2015, aveva detto che con la decisione di applicare il Federculture si era inimicato mezzo mondo e che persino Emma Marcegaglia, allora presidente di Confindustria, l’aveva giudicata una scelta irresponsabile perché poi altri musei lo avrebbero preteso.

Non lo applica Adi Design Museum di Milano, di cui Cancellato è direttore. Per ora i 20 dipendenti hanno il contratto dei servizi, come i colleghi delle altre imprese del gruppo, «per evitare di avere in uno stesso ufficio persone con contratti diversi».

Disdegna il Federculture perfino Ales Spa, la società in house del ministero della Cultura, da poco entrata nell’associazione, che finora gli ha preferito il contratto del commercio, con grandi problemi organizzativi per i numerosi funzionari e tecnici i cui orari da 38 ore settimanali devono essere incastrati con quelli da 36 dei dipendenti diretti del ministero. Ma su questo punto Cancellato è fiducioso, «diamo il tempo, non sono percorsi che si sbloccano dalla sera alla mattina, ma l’ingresso di Ales è un messaggio chiaro. Del resto, ha un unico socio, il ministero».

Evitare il dumping

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Secondo Federico Trastulli di Uilpa, l’organizzazione sindacale che si occupa di pubblica amministrazione, l’idea di puntare a un contratto unico è buona, purché si parta da un confronto con i sindacati per risolvere i problemi di chi lavora da decenni in modo precario e senza un riconoscimento della professionalità acquisita. «Se invece nascondesse una velata volontà di fare dumping contrattuale sarebbe insostenibile», dice.

Oggi gli operatori del settore hanno inquadramenti economici e giuridici che non c’entrano nulla con la cultura, ma scaturiscono da una mera economicizzazione del rapporto di lavoro. «Non si può applicare il contratto del commercio a chi lavora in biblioteche e musei – chiarisce – perché poi ci si ritrova con una persona che fa accoglienza e vigilanza in un museo inquadrata come un banconista di macelleria».

Fissare un limite

Per evitare che faccia la fine del Federculture, il contratto unico, se nascerà, avrà bisogno di essere sostenuto sia dal management delle imprese sia dalla politica. «Nelle aziende bisogna rompere il meccanismo abitudinario che porta i commercialisti a organizzare la contrattualistica per i dipendenti sulla base del contratto del terziario», avverte Cancellato. Se si sceglie un contratto per risparmiare, «diventa competizione al ribasso, e non mi pare sia nemmeno tra gli auspici del governo».

Al momento il progetto di un contratto unico per la cultura non sembra essersi affacciato in parlamento. In attesa di conoscerne i dettagli, la senatrice del gruppo misto Margherita Corrado, archeologa che siede in commissione cultura, si augura che l’obiettivo sia «assicurare a chi lavora una tariffa base non indecente come quelle attuali». Fissare un limite al di sotto del quale le retribuzioni non debbano andare servirebbe a «evitare alcune degenerazioni del settore: l’uso di contratti che non c’entrano niente con le professionalità, scelti dai datori di lavoro solo per risparmiare, e l’uso inappropriato del volontariato, nobilissima attività di per sé ma utilizzato per riempire i vuoti».

Anche se un nuovo contratto unico dovesse vedere la luce, rimane da capire come evitare quello che è successo dalla legge Ronchey in poi, il fatto che, in nome del libero mercato, ogni impresa che vince un appalto applica il contratto che vuole. «Finora chi ha voluto garantire che non si presentasse a una gara per i beni culturali un’azienda esterna al settore ha usato un meccanismo ad excludendum, per esempio chiedendo personale che conoscesse tre lingue o con competenze molto specifiche», conclude Trastulli, ma non basta «e così non si va da nessuna parte».

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