Questo è il periodo dell’anno in cui la posta elettronica è intasata di auguri aziendali. Alberelli con luci lampeggianti e frasi stereotipate da qualsiasi soggetto abbia ricevuto o speri di ottenere soldi per un servizio o una donazione. Agli operai metalmeccanici è successo qualcosa di diverso. Di opposto, si può dire: a pochi giorni dal Natale è arrivata, senza neanche tanti fronzoli, una comunicazione ufficiale in base alla quale dallo scorso 31 dicembre stanno pagando per benefit che non riceveranno o riceveranno solo dietro il pagamento di altri soldi.

Il messaggio pre-natalizio è arrivato dall’assicurazione mètaSalute che gestisce la sanità integrativa dei metalmeccanici e dice che le polizze, che sono sostanzialmente obbligatorie da contratto collettivo di categoria perché basate sul silenzio-assenzo, vengono unilateralmente riviste al ribasso, senza possibilità di recesso.

Drastico taglio alle prestazioni in assistenza diretta, sforbiciata alle diarie per le riabiliazioni e alle cure odontoiatriche, non più gratuità per i familiari non a carico, mentre viene introdotto un ticket: il 15 per cento nei casi degli interventi chirurgici, il 35 per cento per le spese odontoiatriche e il 30 per cento per le visite specialistiche e la diagnostica.

Ma soprattutto dall’oggi al domani viene detto che il fondo contrattuale, a causa del Covid-19, si trova in cattive acque. I costi sono esplosi, da lì la necessità di operare tagli e compartecipazione individuale alle spese mediche precedentemente coperte integralmente. Si è arrivati, senza alcun avvertimento, a una situazione pre-fallimentare.

L’assicurazione

Cosa sia successo non è esattamente spiegato. È infatti poco probabile che con la pandemia siano improvvisamente esplose le cure odontoiatriche, le più costose e le più ambite, visto che non sono coperte dal servizio sanitario pubblico. E la gestione del fondo è rimasta quella pre-Covid, in mano al gruppo bancario Intesa San Paolo dopo l’acquisto dell’assicurazione Rbm-Salute.

MètaSalute è un istituto contrattuale abbastanza recente, parte nel 2012 quando il fondo è istituito dal contratto di lavoro firmato all’epoca solo da Fim e Uilm, seguendo le indicazioni della Cisl che da sempre punta sul potenziamento del welfare aziendale e quindi sulla sanità integrativa.

L’assicurazione dei metalmeccanici viene estesa nel 2016 e quindi confermata nell’ultimo contratto, siglato unitariamente dalle tre sigle sindacali meno di un anno fa. Ai metalmeccanici – quasi 2 milioni di lavoratori, più le loro famiglie – è fornita la possibilità di usufruire di sei diversi piani assicurativi per saltare le estenuanti liste di attesa pubbliche e avere anche benefit come il dentista gratis o i “voucher salute”.

Una opportunità che scatta di default visto che tutti gli operai risultano iscritti a meno che non ne esplicitino la rinuncia, alla quale però non fa seguito alcuna contropartita. Sono 156 euro in più all’anno, pagati direttamente dalle aziende che però per questa via sono state alleggerite da rivendicazioni di aumenti retributivi più sostanziosi in busta paga. Nel consiglio d’amministrazione, oltre ai rappresentanti delle tre sigle sindacali firmatarie del contratto, siedono i delegati confindustriali – Federmeccanica e Assistal – e quelli degli enti gestori. E a quanto pare è in quella sede che è stata decisa la sforbiciata alle prestazioni sanitarie e la cancellazione di quelle sociali, con comunicazione a cose fatte.

La class action

Non tutti gli assicurati del resto usufruiscono dei piani sanitari di mètaSalute. Anzi, a ben vedere, soltanto una quota irrisoria della platea dei metalmeccanici, intorno al 10 per cento, è riuscita dal 2012 ad oggi a istruire pratiche di rimborso o di assistenza diretta. E questo perché districarsi nella burocrazia dilatoria delle polizze è risultato complicatissimo.

Tanto complicato che l’anno scorso una specie di class action, tramite l’associazione Altroconsumo, è riuscita a strappare all’Antitrust una sanzione risarcitoria da 6 milioni di euro, comminata a Intesa Sanpaolo Rbm Salute e a Previmedical, che gestisce materialmente le procedure di rimborso, per pratiche commerciali scorrette.

La class action riguarda oltre un migliaio di reclami per ritiri di autorizzazioni già rilasciate per convenzioni, ritardi arbitrari di liquidazioni, applicazioni di regole diverse per gli stessi risarcimenti e una generale confusione interpretativa delle regole del fondo. Tutte anomalie segnalate a partire dal 2018, quando la gestione sarebbe dovuta essere già rodata.

È proprio la difficoltà di accesso alle prestazioni che funziona come disincentivo per la stragrande maggioranza dei lavoratori assicurati a chiederne l’utilizzo, il che fa pensare che non si tratti di semplice incompetenza ma di una deliberata strategia per disincentivarne l’utenza. O almeno a riservarne l’accesso a pochi. In ogni caso non è questa sanzione ad aver peggiorato i conti, essendo sospesa per un ricorso al Tar del Lazio da parte dei due soggetti finanziari condannati.

Convenzioni precedenti

Il fatto è che mètaSalute ha assorbito precedenti convenzioni di sanità integrativa già previste nei contratti di secondo livello di multinazionali e grandi aziende, e largamente utilizzate soprattutto da quelli che un tempo venivano chiamati “colletti bianchi”, impiegati o tecnici laureati, e che ora con l’inquadramento unico non esistono più se non come livello di una stessa categoria.

In queste stesse grandi aziende le pratiche, anche assicurative, spesso vengono ancora gestite dal personale amministrativo interno, secondo procedure collaudate negli anni. Poi è arrivato il Covid-19. Ed è probabilmente esploso l’utilizzo delle prestazioni anche e soprattutto in termini di diarie e di trattamenti di riabilitazione per patologie respiratorie e i postumi dell’infezione, oltre che per la diagnostica privata quando le strutture sanitarie pubbliche sono andate in tilt per la pandemia.

Resta il fatto che la stragrande maggioranza degli iscritti a mètaSalute non può beneficiare dei servizi per cui è assicurata. Ragioni per le quali la minoranza interna alla Fiom “Riconquistiamotutto” chiede ora di introdurre la possibilità di recesso di ogni singolo aderente a mètaSalute, con il corrispondente pagamento in busta paga del costo contrattuale sostenuto dalle imprese. E in prospettiva di non inserire più la sanità integrativa nei contratti nazionali.

Nessuno controlla

Neanche gli analisti di Altroconsumo sono riusciti a capire quali siano i problemi di mètaSalute. Le informazioni sui fondi sono difficili da trovare perché la vigilanza su di loro spetta al ministero della Salute, mentre quello sulle assicurazioni all’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni.

Il suo stesso segretario generale, Stefano De Polis, in occasione dell’indagine conoscitiva in materia di fondi integrativi ha ammesso che: «Con riferimento specifico al settore in esame, la prima problematica che riscontriamo è che i consumatori non hanno chiaro chi è il soggetto responsabile della prestazione sanitaria che gli viene erogata e, quindi, dell’eventuale disservizio che si può verificare in relazione a tale prestazione. I reclami e le segnalazioni che riceviamo sono riferiti in maniera indifferenziata a imprese di assicurazione, a fondi sanitari e società di mutuo soccorso e finanche agli stessi provider di servizi sanitari, intendendosi per tali le imprese di servizi che stipulano convenzioni con fondi e casse e che tengono i contatti con le strutture sanitarie».

E ancora più chiaramente Riccardo Cesari, dello stessa authority assicurativa, durante il Welfare Italia Forum a novembre, ha dichiarato che «fondi sanitari e casse mutue sono sostanzialmente privi di adeguata regolamentazione e vigilanza attiva e questo non può non influire sul buon funzionamento del sistema, sulla sua efficienza e, in ultima analisi, sulla fiducia delle famiglie verso la sanità integrativa». In sostanza, nessuno controlla e quindi non si saprà mai dove sono spariti i soldi degli operai.

© Riproduzione riservata