A un certo punto Joe Biden rivolge lo sguardo verso la platea e dice: «Mandatelo sulla mia scrivania. Lo firmerò». Il momento è solenne.

È il 1° marzo, il presidente sta pronunciando il discorso sullo stato dell’Unione di fronte al Congresso e naturalmente dedica molto spazio alla guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina.

Ma poi, nella parte riservata alla politica interna e all’economia, quella che interessa di più all’elettorato, Biden parla di semiconduttori.

E della necessità di approvare un provvedimento che metterà sul piatto più di 52 miliardi di dollari da investire nella produzione e ricerca di chip negli Stati Uniti.

«Il Ceo di Intel, Pat Gelsinger, che è qui stasera, mi ha detto che sono pronti ad aumentare il loro investimento da 20 a 100 miliardi di dollari», aggiunge il presidente invitando Gelsinger ad alzarsi.

«Sarebbe uno dei più grandi investimenti nella produzione nella storia americana. E tutto quello che stanno aspettando è che voi approviate questo disegno di legge».

Un impianto in Italia

Poche ore prima, la Reuters riferiva che «l’Italia prevede di stanziare oltre 4 miliardi di euro fino al 2030 per rilanciare la produzione nazionale di chip, cercando di attrarre maggiori investimenti da aziende tecnologiche come Intel».

L’obiettivo del governo italiano, infatti, è convincere il gigante americano a realizzare un impianto per la produzione di semiconduttori nel nostro paese. Un investimento da circa 8 miliardi di euro.

Trattative sarebbero in corso anche con la italo-francese STMicroelectronics, la Memc Electronic Materials di Novara e l’israeliana Tower Semiconductor.

Mentre il conflitto in Ucraina risucchia tutta l’attenzione del mondo, un’altra crisi, per fortuna meno sanguinosa, continua a preoccupare politici e aziende.

È la carenza di microchip, i piccoli cervelli che fanno funzionare computer, smartphone, tablet, elettrodomestici, centraline delle auto. La «chipageddon», come è stata battezzata negli Usa, sta provocando seri problemi a molte industrie. E in particolare a quella dell’auto.

Il 3 marzo Stellantis, il gruppo nato dalla fusione tra l’italoamericana Fca e la francese Psa, ha annunciato il blocco per due settimane, fino al 14 marzo, dello stabilimento di Melfi, in Basilicata: mancano i semiconduttori per le centraline.

Per la stessa ragione ci sono stati fermi di due giorni a Cassino, mentre sulla linea della 500e a Mirafiori sono stati sospesi tre turni di lavoro. I fermi alle fabbriche avvengono ovunque.

A fine febbraio lo stabilimento Mini della Bmw a Oxford, nel Regno Unito, aveva bloccato la produzione di automobili per cinque giorni a causa della carenza globale di microchip. Nei giorni scorsi la Toyota ha tagliato il suo obiettivo di produzione annuale di mezzo milione di veicoli a causa della continua carenza di chip. E le prospettive non sono buone.

L’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, ha ammesso che «la crisi dei semiconduttori durerà almeno fino alla fine dell’anno». E il gruppo Volkswagen non prevede che la mancanza globale di semiconduttori finisca quest’anno.

I piccoli cervellini di silicio sono un po’ dappertutto, finiscono in milioni di prodotti diversi e sono richiestissimi: la loro domanda è cresciuta di circa il 17 per cento nel 2021 rispetto al 2019 e la produzione non riesce a star dietro alle richieste. La scarsità di chip ha costretto i fabbricanti di smartphone come Apple e Samsung a ritoccare l’output.

Ma è l’industria dell’auto a essere colpita più duramente. «L’auto si è svegliata dall’incubo del lockdown scoprendo di avere un peso relativo per l’industria dei chip, un componente fondamentale per un’auto elettrica di ultima generazione che può contarne fino a tremila, contro le poche decine di un’auto endotermica tradizionale.

E purtroppo l’industria dei semiconduttori ora guarda da un’altra parte, intenta a servire clienti più remunerativi e provocando una mancata produzione di 10 milioni di auto in soli 18 mesi», ha spiegato in un report Gianluca Di Loreto, partner della società di consulenza Bain & Company: «Per l’industria dei semiconduttori, che complessivamente vale circa 450 miliardi di dollari, l’automotive pesa solamente l’8 per cento; più importante è il mondo dei computer, che vale circa un terzo, quello degli smartphone, un altro terzo, seguito dall’elettronica di consumo e dal settore industriale».

Domanda in crescita

AP Photo/Ng Han Guan

Con milioni di persone in lockdown per la pandemia, la domanda di apparecchi elettronici è schizzata verso l’alto, mentre le case automobilistiche chiudevano le fabbriche e riducevano gli ordini di microchip.

Quando la richiesta di vetture è ripartita, i produttori di auto si sono trovati impreparati, senza scorte e con i fornitori di elettronica che sfornavano a ritmi forsennati semiconduttori per il mercato dei laptop, degli smartphone, dei tablet e degli apparecchi che ruotano intorno al 5G, senza peraltro soddisfare per intero la domanda.

E per il leader mondiale dei chip, la taiwanese Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) che controlla il 51 per cento del mercato, è più redditizio investire in semiconduttori definiti leading edge o bleeding edge (basati cioè su tecnologia di processo dai 10 ai 5 nanometri), che finiscono negli apparati digitali, sottolinea Di Loreto. Mentre quelli meno costosi riservati alle vetture restano in fondo alla fila.

Trovare rapidamente una soluzione al problema non è facile. Le società che fabbricano semiconduttori per l’industria dell’auto stanno aumentando la produzione ma occorrerebbe costruire nuovi impianti.

E richiede tempo: un paio d’anni per realizzare da zero una fabbrica di semiconduttori e altri due per raggiungere la massima capacità.

Inoltre, le case automobilistiche si sono rese conto che non possono dipendere solo dai produttori asiatici e da una catena di approvvigionamento che non riescono a controllare.

Per questo iniziano a stringere alleanze: Stellantis ha firmato un’intesa con la taiwanese Foxconn per progettare quattro famiglie di chip che copriranno l’80 per cento delle esigenze dei microcontrollori dell’azienda, contribuendo a semplificare la catena di approvvigionamento.

La Ford ha stretto una partnership con il produttore di chip statunitense GlobalFoundries per ridurre la dipendenza dalla Tsmc. E altre case stanno seguendo la stessa strada.

La strategia di Usa e Ue

Parallelamente Stati Uniti ed Europa vogliono riprendere il controllo di una tecnologia fondamentale che hanno trascurato a vantaggio dei produttori asiatici.

La quota degli Stati Uniti nella produzione di microchip a livello globale è scesa dal 37 per cento del 1990 a circa il 12 per cento attuale. Quella dell’Europa si aggira intorno al 10 per cento.

Per recuperare terreno la Commissione europea ha varato un maxi piano da 50 miliardi di euro: «Il fabbisogno di microchip raddoppierà nel prossimo decennio», ha dichiarato  la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. 

«Entro il 2030, il 20 per cento della produzione mondiale di microchip dovrebbe essere qui in Europa, il doppio di oggi in un mercato destinato a raddoppiare nel prossimo decennio, quindi significa quadruplicare la produzione europea odierna».

Nel maxi piano sono previsti 12 miliardi di euro di fondi pubblici (6 dal bilancio comunitario e 6 dai governi nazionali) per la ricerca e sviluppo di semiconduttori sicuri ed efficienti dal punto di vista energetico. 

A questi si aggiungono oltre 30 miliardi di euro di investimenti pubblici già previsti dai governi, sostenuti dal Recovery fund, dal programma Horizon Europe e dai bilanci dei singoli stati.

Sarà da questa massa di denaro che Roma attingerà per attirare in Italia una società come Intel e convicerla a costruire un impianto.

In America invece il provvedimento bipartisan Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors (Chips), ancora fermo tra le due Camere, fornirà come abbiamo visto più di 52 miliardi di dollari al settore.

Soluzioni che richiedono anni. Intanto, alle strozzature nelle catene di approvvigionamento e ai blackout che a Taiwan interferiscono nella produzione di semiconduttori, si è aggiunta adesso la guerra in Ucraina: a Odessa ha sede una società, Cryoin, che produce gas neon, una sostanza impiegata per alimentare i laser utilizzati nell’industria dei chip.

Un blocco della sua produzione potrebbe avere effetti a livello globale: nel 2014, quando la Crimea fu annessa alla Russia, i prezzi del gas al neon schizzarono del 600 per cento.

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