Vi è un generale consenso che il lavoro sia il tema centrale di ogni politica di sviluppo: ma di quali lavori e  quali lavoratori parliamo? Valorizzare il lavoro richiede di creare lavori di qualità e lavori decenti, ridisegnando il lavoro in sé stesso e formando le persone a svolgerlo. Difficile, ma possibile tipizzando e diffondendo  esperienze  virtuose italiane e internazionali: una battaglia culturale e civile per la professionalizzazione di tutti.

Il mondo del lavoro di qui al 2030 cambierà profondamente: circa il 50 per cento delle occupazioni a quella data oggi non esistono. Quelle che esistono saranno profondamente modificate.

Il gap da recuperare

I knowledge workers, i lavoratori della conoscenza ossia artisti, ricercatori, insegnanti, professionisti, manager, tecnici che nel 2000 in Italia erano già ben oltre il 42 per cento e in Gran Bretagna il 51 per cento della popolazione lavorativa nel 2008, nel 2030 probabilmente saliranno al 70 per cento. Ma in Italia la loro qualificazione scolastica (lauree, istruzione terziaria) dovrà rimontare l’attuale gap con l’Europa: In Italia i laureati sono il 25,3 per cento dei cittadini: ultimi in Europa, dove la media è del 38,7.

I ricercatori e gli esperti, che sperabilmente dovranno essere assai più numerosi e meglio trattati di oggi, saranno sempre meno specializzate “teste d’uovo” e sempre più lavoreranno in team. Molti tecnici e manager diventeranno imprenditori di start up o architetti del nuovo lavoro e delle nuove organizzazioni. Il 10 per cento circa di artigiani e operai specializzati con l’«intelligenza nelle mani» adopereranno fruttuosamente conoscenze tacite e maestrìa.

Operai residuali e controllori 

 Gli  “operai residuali” che svolgono lavori poveri e faticosi per aree deboli del mercato del lavoro andranno ridotti di numero e difesi. Cresceranno gli operai controllori di processi automatizzati (fisici o informativi) ad alto livello di qualificazione, che  assorbono  varianze e attivando svolgono compiti di comunicazione, cooperazione, condivisione di conoscenza: un mondo cioè di “operai aumentati”, in occupazioni qualificate e stabili.

Il repertorio di forme giuridiche e contrattuali di gestione del lavoro si amplierà ulteriormente con una varietà di forme dell’impiego (lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempo determinato, lavoro a progetto, prestazioni occasionali, partita Iva, studi associati, società semplice etc.), con una estrema diversità di livelli di stabilità dell’occupazione (dal posto fisso al lavoro autonomo), con una varietà enorme di livelli retributivi (dai super ricchi ai knowledge workers e agli operai sotto la soglia della povertà), con una varietà di schemi di orari (da 4 ore per 5 giorni, a 8 ore per 3 giorni, a 8 ore per 5 giorni, all’always on, ossia la disponibilità in remoto 24 ore per 7 giorni), con una grande varietà di configurazione dei luoghi di lavoro (con incremento del telelavoro o dello smart working), con situazioni assicurative e previdenziali molto diverse.

Complessità produttivaù

Entro l’estrema complessità produttiva, professionale e regolatoria occorrerà dare valore economico e sociale a tutti i lavori, di assicurare un alto livello di occupazione e una buona qualità della vita di lavoro, di garantire a chi temporaneamente il lavoro lo ha perso o non è in condizione di lavorare un reddito dignitoso di sostegno, di solidarietà, di cittadinanza.

Importanti quindi le norme e le regole fiscali. Ma per ottenere risultati duraturi occorre soprattutto intervenire sul lavoro in sé stesso, accelerare il percorso di valorizzazione strutturale del lavoro umano, già in atto nei contesti più virtuosi ma che non si è generalizzato. Un percorso di una professionalizzazione di tutti e non solo di una élite. Professionalizzazione vuol dire l’aumento di valore e professionalità dei ruoli e delle professioni e delle relative competenze a ogni livello. Professionalizzazione vuol dire anche retribuzioni: senza retribuzioni più alte i giovani più qualificati andranno a lavorare sempre di più in altri paesi; senza salario equo i meno qualificati scivolano nel gorgo della povertà.

Disegnare il nuovo lavoro

Per contribuire a eliminare i lavori degradati, la polarizzazione, il mismatch fra offerta e domanda di lavoro, il fenomeno dei working poors e per sconfiggere la disoccupazione e il fenomeno dei NEET, proponiamo in sostanza un percorso di architettura dei nuovi lavori che disegni, sviluppi, regoli e protegga sia il lavoro del progettista di tecnologie o dell’esperto di marketing sia il lavoro dell’operaio alla catena di montaggio, dell’addetto alle casse di un supermercato, del rider.

Pensiamo a nuovi ruoli, mestieri e professioni, che contengano e innovino le caratteristiche dei diversi modelli di lavoro del passato: la razionalità delle occupazioni industriali, le caratteristiche di qualità e bellezza del lavoro artigiano, le caratteristiche di elevata formazione, giurisdizione e responsabilità delle libere professioni e dei lavori creativi.

In una parola, una prospettiva di un nuovo laburismo dei lavori di qualità. In esso il lavoro torna ad essere ricchezza delle nazioni, come scriveva Adam Smith. Un percorso, come scriveva Bruno Trentin, di libertà nel lavoro invece che di libertà dal lavoro.

Nelle singole organizzazioni private e pubbliche, grandi e piccole ciò vuol dire moltiplicare progetti di progettazione partecipata e integrata di tecnologia, organizzazione, lavoro, vita, ossia una nuova sociotecnica. Progetti sostenuti anche da patti per il lavoro nazionali e regionali fra le forze sociali e culturali del paese, come lo fu il New Deal americano, la Mitbestimmung tedesca,  la Industrial Democracy scandinava e in Italia recentemente il Patto per il lavoro e per il clima dell’Emilia Romagna.

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