All’interno della storia del Novecento italiano, Adriano Olivetti ricopre un ruolo quasi mitologico e, come sempre accade nei processi di mitizzazione, alcuni tratti del soggetto originale vengono evidenziati e altri finiscono per scomparire del tutto. Il giornalista e saggista Paolo Bricco ha ricostruito in un libro che colpisce per la mole di ricerca su cui si basa (libri, documenti degli archivi, interviste ai protagonisti di quell’epoca), un Adriano Olivetti definito ben più nel dettaglio, restituendogli così una carattere umano e meno mitologico.

Il risultato è un personaggio visionario, innovativo, ma non privo di debolezze, contraddizioni e lati oscuri. Uomo di interessi vastissimi, Olivetti rispetto agli intellettuali che stimò per tutta la vita era sottoposto a un vincolo maggiore: doveva far funzionare un organismo reale nel mondo reale e la coerenza assoluta si presta molto meglio ai sistemi teorici destinati a rimanere su carta. È questo l’Olivetti – un imprenditore faticosamente impegnato a far entrare la teoria dentro la realtà– che Bricco rende con una lingua curata, elegante e competente in Adriano Olivetti, un’italiano del Novecento (Rizzoli).

La bibliografia su Adriano Olivetti e sulla Olivetti è amplissima, il tuo libro però è uno dei pochi che senza per questo essere pregiudizialmente critico o ostile non assume mai il tono dell’agiografia. Come nasce?

Avevo già scritto diverse monografie sulla storia della Olivetti successiva alla morte di Adriano, avvenuta nel 1960. La sua ombra rimaneva sempre sospesa su tutto: ogni vicenda successiva sembrava ricondurre a lui, anche se lui era morto da tempo. La sua ombra ogni cosa occupava, deformava, rimodellava. Questo accadeva nella penuria della filologia documentale e nella assenza del criterio weberiano della “avalutatività oggettiva”. Perciò ho sentito il bisogno di misurarmi con una figura tanto impegnativa e complessa, ammirevole e automistificante, totemica e ambigua, realmente incisiva nella storia ma anche trasportata nell’immaginario e nella mitopoietica.

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Prima di Adriano c’era Camillo, in che modo Adriano fu influenzato dal padre e in che modo invece fu diverso?

La prima influenza è la coartazione, come in ogni rapporto padre-figlio. Adriano subisce le scelte di Camillo. Camillo è un imprenditore socialista. Ma è soprattutto un ingegnere e un positivista. Non crede nella cultura umanistica. Impedisce al figlio di frequentare il liceo classico. Per tutta la vita Adriano, perito industriale e poi ingegnere chimico, si dispiacerà di non avere studiato latino e greco, storia e filosofia.

La maggiore differenza fra i due riguarda la capacità di trasformare le intuizioni in pratica manageriale e industriale. La Olivetti evolve da piccola azienda a impresa strutturata negli anni Trenta, quando la leadership passa ad Adriano che, con una abilità da imprenditore fuori dal comune, nel dopoguerra la trasformerà in una multinazionale. Camillo è un uomo dell’Ottocento. Adriano è un uomo del Novecento.

Prima della Olivetti adrianea del dopoguerra, quella che poi si fece mito, c’è l’Olivetti degli anni del fascismo, quale fu il rapporto di Adriano con il regime?

Adriano è integrato nella società fascista. Lo è dal punto di vista culturale. In lui il codice prevalente è quello della fabbrica che adatta al contesto culturale organicista e corporativista del fascismo, scrivendo innumerevoli contributi sulla stampa del tempo. Lo è dal punto di vista imprenditoriale: ha un rapporto diretto con la stretta cerchia di Benito Mussolini e ottiene dai vertici dello stato protezione facendo aumentare i dazi sui prodotti importati in Italia e impedendo l’apertura di nuove fabbriche di concorrenti.

Quando cade Barcellona durante la guerra civile in Spagna, Adriano scrive una lettera pubblicata il 2 febbraio 1939 sul giornale del fascio La Provincia di Aosta: «La liberazione di Barcellona mentre ha in tutta Italia una rispondenza di orgoglio e di fierezza, ha inoltre per la nostra Società particolare significato in quanto in quella città esiste un nostro nucleo industriale, affermazione della costruttività del tenace lavoro italiano anche all’estero. Desideriamo manifestare la nostra riconoscenza verso i valorosi Legionari Italiani mettendo con la presente a disposizione Vostra la somma di lire 10.000 che ci permettiamo suggerirVi destinare alle famiglie bisognose dei caduti e combattenti della nostra provincia in terra di Spagna».

Nel libro si coglie tutta l’ampiezza degli interessi culturali di Adriano, un’ampiezza che sfocia talvolta nell’indeterminatezza ed è come se a mettere ordine nella teoria fosse poi la pratica, ovvero l’industria Olivetti. Che rapporto c’è fra la visione di Adriano e la sua azienda?

Adriano ha una testa e un cuore permeati di sincretismo: prende spunti, intuizioni, suggestioni dai campi più differenti e prova a ricondurli a disegni organici e a codici complessi. Per questo serve una lettura coesa e unica dell’Adriano industriale, programmatore pubblico economico e sociale, riformista radicale, editore, politico: con le sue realizzazioni e i suoi passaggi a vuoto, i suoi mondi creati ex novo e le sue umane incapacità e impossibilità.

Una cosa va però chiarita: il sottostante maggiore è la sua natura di imprenditore. L’internazionalizzazione, l’innovazione, l’immateriale estetico e la comunicazione nella strategia dell’impresa, gli stipendi nominali maggiori del 40 per cento rispetto allo standard, i servizi sociali con la maternità pagata alle dipendenti al 100 per cento dalla azienda fino al nono mese di vita del bambino. La fabbrica è la base su cui Adriano ha edificato e ha ricondotto a sintesi operativa la sua visione aerea delle cose e con la quale ha potuto finanziare i centri comunitari, il partito politico di Comunità, la casa editrice di Comunità, le riviste culturali.

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Dopo anni di boom e di margini operativi lordi quasi incredibili, alla sua morte Adriano lascia una Olivetti in difficoltà, come è stato possibile?

Il ciclo di crescita della Olivetti ha un problema fra il 1954 e il 1958. L’azienda ha bisogno di capitali per alimentare il suo sviluppo. La famiglia Olivetti mette tanti capitali quanti ne estrae con i dividendi. E non ha intenzione di cedere quote di proprietà. La Olivetti sperimenta il classico dilemma del capitalismo famigliare occidentale.

Gli investimenti sulla elettronica sono onerosi e non portano a ricavi. Adriano ha solo il 10 per cento delle azioni. Molti suoi famigliari sono contrari a lui, che è ossessionato dalla ipotesi di una fondazione che priverebbe gli Olivetti del controllo della Olivetti. Nel 1958 Adriano partecipa con Comunità alle elezioni politiche nazionali e ottiene un pessimo risultato.

Subito dopo c’è un errore: l’acquisizione di Underwood, l’azienda di macchina per scrivere americana che era decotta. Adriano la compra senza nemmeno una due diligence. I semi della caduta, che avverrà nei primi anni Sessanta, ci sono tutti già prima.

Adriano e suo figlio Roberto colgono da subito l’importanza dell’elettronica, la tecnologia che negli anni successivi cambierà il mondo. Devono affrontare però tantissime difficoltà, poi, alla morte di Adriano, i loro sforzi vengono come riassorbiti dall’avversione del sistema economico italiano all’innovazione. Cosa è andato storto?

Ci sono tre ragioni: la fragilità finanziaria e patrimoniale della Olivetti e della famiglia Olivetti. L’assenza negli anni Cinquanta, nell’universo mentale del ceto politico italiano, dell’idea che servano politiche industriali fatte di domanda e di innovazione pubblica: quando la Olivetti in salute investe nella elettronica, non esiste alcuna policy di supporto in Italia. La convinzione di Enrico Cuccia, chiamato a evitare con il Gruppo di Intervento coordinato da Mediobanca il fallimento della Olivetti nel 1964, che la frontiera tecnologica adatta al paese non fosse l’elettronica, bensì la chimica. Anche in virtù di questo l’Olivetti conservò l’Underwood e cedette l’elettronica alla General Electric.

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Qual è l’aspetto più difficile dello scrivere di Adriano Olivetti?

Sapere che, nella communis opinio di quel che rimane del ceto intellettuale italiano, Adriano è ancora adesso un mito intangibile, non sottoponibile allo scrutinio dei documenti e non maneggiabile con i normali strumenti della filologia e dell’ermeneutica storica. I rapporti con il fascismo, i legami con il deep state americano da cui cerca di farsi continuamente finanziare, i fallimenti nella politica, gli errori strategici anche nell’industria.

Nulla di questo oscura la grandezza di Adriano Olivetti. Scrivere una biografia empatica ma critica, narrata ma filologica è stato un atto di amore e di pensiero verso una delle personalità che hanno più segnato il Novecento italiano ed europeo.

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