Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia tedesco, il liberale Christian Lindner, ha annunciato la sua intenzione, nel preparare la legge di bilancio per il 2024, di tornare alla “normalità fiscale”, vale dire di tornare ad applicare la regola fiscale sospesa nel 2020 (il Schuldenbremse, o freno al debito) che impone di riportare il debito sotto al 60 per cento del Pil. Con l’eccezione della difesa, tutti i ministeri dovrebbero vedersi ridurre le dotazioni; in particolare, il ministero della Famiglia retto dalla Verde Lisa Paus non potrà finanziare il programma di contrasto alla povertà infantile che il governo aveva messo al centro della propria agenda di protezione sociale.

Frettolosa frugalità

Lindner, un falco che preme fin dall’intronizzazione del governo di coalizione con Verdi e Socialdemocratici per un rapido ritorno alla disciplina di bilancio, ha probabilmente un doppio obiettivo: da un lato, internamente, mostrare che è in grado di orientare le politiche di una coalizione litigiosa e incapace di decidere. Dall’altro, di influenzare il dibattito europeo sulla regola che sostituirà il Patto di Stabilità, portando il proprio paese ad esempio di probità fiscale.

La Germania (il Diario Europeo ne ha già parlato il 23 aprile) preme perché la nuova regola europea sia una versione appena rivista di quella attualmente in vigore (sospesa fino alla fine del 2023), prevedendo un rapido ritorno del debito pubblico al 60 per cento del Pil. Sia nel dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità, sia nelle discussioni all’interno della coalizione semaforo tra Liberali, Verdi e Socialdemocratici, colpisce la fretta di una larga fetta della classe politica tedesca di chiudere la parentesi del Covid e ritornare ad un governo dell’economia improntato alla frugalità. Una fretta che colpisce per due motivi. In primo luogo, perché l’economia tedesca è in crisi congiunturale. Due trimestri di crescita (leggermente) negativa l’hanno messa formalmente in recessione; indipendentemente da questo la Germania non ha ancora recuperato i livelli di attività del 2019 ed è il fanalino di coda tra i paesi dell’Ocse. Questa performance deludente può essere spiegata da fattori contingenti, come l’impatto della guerra in Ucraina e dell’aumento dei prezzi dell’energia che a causa della posizione geografica e della specializzazione produttiva si sono fatti sentire in Germania più che altrove. Ma ci sono anche fattori più strutturali, come la sofferenza di interi settori in cui le imprese tedesche non riescono a tenere il passo dell’innovazione tecnica e della concorrenza dei paesi emergenti; un esempio è l’industria automobilistica: le imprese tedesche, leader nei motori a combustione, sono in ritardo sulle vetture elettriche nelle quali la Cina sta accumulando un vantaggio significativo. In queste condizioni, ridurre il sostegno pubblico all’economia con un’austerità autoimposta sembra particolarmente autolesionista.

Meno investimenti

In secondo luogo, il mito della disciplina di bilancio diffuso tra le classi dirigenti tedesche sembra particolarmente incomprensibile perché, già prima della pandemia i molti anni di frugalità passata, pubblica e privata, iniziavano a farsi sentire. A partire dai primi anni Duemila la Germania ha adottato un modello di crescita trainata dalle esportazioni, basato sulla compressione della domanda interna. Tra il 2000 e il 2019 l’investimento delle imprese tedesche è stato di molto inferiore alla media dell’Eurozona. Per l’investimento pubblico lo scarto è meno importante, ma solo perché anche nel resto dell’Eurozona il capitale pubblico è cresciuto a tassi bassissimi. La Germania ha avuto un investimento pubblico (netto di ammortamenti) in media nullo tra il 1999 e il 2015, mentre nella zona euro nel suo complesso questo era positivo (sia pure insufficiente, e calante negli anni della crisi del debito sovrano). La parentesi del Covid, con investimenti pubblici e privati in ripresa, sembra oggi già richiusa. Il risultato di questa compressione dell’investimento, pubblico soprattutto, è una carenza di capitale che nei prossimi anni vincolerà la crescita tedesca. L’invecchiamento della popolazione farà il resto, riducendo la forza lavoro. Molti studi associano il futuro invecchiamento della popolazione a un’ulteriore riduzione dell’investimento, della produttività del lavoro, e quindi della crescita potenziale.

Già prima della pandemia il consenso tra gli economisti tedeschi era che per rimediare al deficit infrastrutturale accumulato dai primi anni Duemila la Germania dovesse impegnarsi in un massiccio programma di investimenti, dell’ordine di 40-50 miliardi all’anno per un decennio. Ma i bisogni sono in realtà molto più elevati. Dopo la pandemia è diventato chiaro a tutti che non ci si può limitare (non solo in Germania) alle sole infrastrutture materiali: il capitale sociale (istruzione e sanità, ad esempio), falcidiato soprattutto durante gli anni dell’austerità, è altrettanto importante per garantire una crescita equilibrata.

Nel 2018 un rapporto coordinato da Romano Prodi ha stimato in 100 miliardi annui il deficit di investimento sociale per l’Ue. Infine, ma non da ultimo, bisogna considerare i bisogni di investimento legati alla transizione ecologica e alla decarbonizzazione dell’economia. Insomma, se si mettono insieme il bisogno di rinnovare un parco infrastrutturale fatiscente, gli ambiziosi e imprescindibili obiettivi climatici dell’Ue, la carenza di capitale sociale (in particolare nella sanità, uno dei ministeri più colpiti dai tagli annunciati da Lindner), gli investimenti aggiuntivi necessari alla Germania diventano colossali. Un gruppo di economisti con cui collaboro per la redazione del rapporto annuale sull’investimento pubblico in Europa ha stimato questi bisogni in una forchetta tra i 600 e gli 800 miliardi nel prossimo decennio, vale a dire tra l’1,6 per cento e il 2,1 per cento del Pil ogni anno. È evidente come queste cifre non siano in alcun modo compatibili con il “freno del debito” e con l’annunciata contrazione della spesa pubblica.

Eppure, in occasione del discorso di investitura il cancelliere Scholz aveva parlato di un “governo dell’investimento”… Le cose si complicano ulteriormente, rendendo gli annunci di Lindner ancora più incomprensibili, se si considera il profilo temporale dei bisogni di investimento. Gli investimenti infrastrutturali possono essere spalmati su di un arco temporale esteso; anzi, questo consente di modularli in funzione anticiclica (più investimenti in periodi di rallentamento e meno in periodi di espansione) e di evitare colli di bottiglia. La decarbonizzazione dell’economia richiede invece, alla luce dei ritardi accumulati negli anni passati, che gli investimenti siano effettuati il prima possibile. Si tratta in realtà di investimenti principalmente privati (nei trasporti e nella conversione termica del parco immobiliare); ma, come notano sempre i colleghi tedeschi, se si vuole che sia coronato da successo questo massiccio sforzo deve essere accompagnato e in parte finanziato dal governo con sussidi e incentivi fiscali.

Insomma, di fronte ad un mondo che cambia la Germania sembra voltarsi indietro, noncurante del fatto che la vecchia dottrina ordoliberista si sia rivelata clamorosamente inadeguata a preparare il paese alle sfide del futuro.

Si potrebbe essere tentati di commentare che tanto peggio per loro, che in fin dei conti non è un problema nostro. Nulla di più sbagliato. Nei prossimi mesi entrerà nel vivo il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità. Una leadership tedesca ottusamente abbarbicata al passato sarà un problema di tutti noi.

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