I have a dream. Tutti conosciamo questa celebre frase del 1963 di Martin Luther King. Ma la storia di MLK iniziò prima, nel 1955, con il primo grande caso di “boicottaggio” della storia, conosciuto come Montgomery Bus Boycott. Quando l’attivista Rosa Parks venne arrestata per essersi rifiutata di lasciare il suo posto a un bianco su un bus pubblico nella città di Montgomery (Alabama), la comunità di colore iniziò a boicottare il sistema di trasporti pubblici organizzando car pooling e servizi di taxi. Questo mise in crisi il sistema di trasporti pubblici e l’apartheid della città, rappresentando il primo passo verso la conquista dei diritti civili.

Il boicottaggio è diventato a tutti gli effetti una forma di protesta sociale e politica. Oggi si parla molto del movimento Bds (Boicotta, disinvesti e sanziona), che mira a indebolire il supporto internazionale a favore di Israele indicando aziende da boicottare. Negli anni è emersa poi una nuova modalità di attivismo politico, un boicottaggio “invertito”: il “buycott” (anche detto “positive buying”), che consiste nell’acquistare consapevolmente brand e prodotti allo scopo di favorire cause ambientali, sociali e politiche.

Il buycott

Da dati del parlamento europeo raccolti nel 2021, risulta che un cittadino su quattro tra i giovani ha boicottato o “buycottato” un brand almeno una volta. In un altro sondaggio del 2022, il 15 per cento dei rispondenti europei ha dichiarato di considerare queste tra le modalità più efficaci per far sentire la propria voce. Ma quali sono i motivi che ci spingono a boicottare o “buycottare” un brand? Da una parte, considerazioni etiche e sociali. Dall’altra, considerazioni puramente politiche.

Un esempio tipico di buycott etico riguarda l’attivismo ambientale. Da un’indagine di Yale University del 2016, risulta che quasi un terzo degli americani ha dichiarato di aver premiato aziende che avevano adottato misure per ridurre il riscaldamento globale acquistando i loro prodotti più di una volta nell’anno precedente. Inoltre l’aumento di pratiche di “commercio equo e solidale” è prova che i consumatori sono disposti a spendere per “prodotti etici”, come dimostrato da tre professori di Stanford, Harvard ed LSE.

In un esperimento condotto nel 2009, gli studiosi considerano le vendite di due caffè: applicando l’etichetta “Commercio Equo e Solidale” (Fair Trade) in alcuni negozi e usando, per gli stessi brand, etichette generiche in altri punti vendita, si osserva che i caffè “etici” vendono di più. D’altro canto, non solo l’etichetta conta. Un aumento del prezzo associato alla label solidale non diminuisce le vendite del caffè premium, ma diminuisce la domanda per il caffè più economico. Simili risultati emergono da un esperimento condotto nei negozi americani di Banana Republic, usando etichette sugli standard etici nell’ambito del lavoro.

Il legame con un partito

Quando invece i consumatori cambiano il loro comportamento per ragioni politiche, in gergo si parla di “partisan consumerism”, ossia “consumismo partitico”. Uno studio del 2020 di Panagopolous e altri ricercatori ha dimostrato che i cittadini americani sono più propensi ad acquistare un brand quando sanno che il medesimo ha fatto donazioni per il loro partito di preferenza. Parallelamente, sono meno intenzionati a comprare marchi che hanno finanziato il partito a cui si oppongono. In altre parole, il pensiero politico influenza le nostre scelte di consumo.

Un caso interessante è quello della società Goya, brand ispanico di prodotti alimentari. Quando il ceo elogiò pubblicamente Trump nel 2020, partì un’intensa campagna di boicottaggio sui social e sui media con gli hashtag #BoycottGoya e #Goyaway. I principali clienti di Goya, generalmente ispanici e quindi in gran parte democratici, cambiarono brand. Nonostante ciò, le vendite registrarono un aumento del 22 per cento poiché le dichiarazioni del ceo avevano innescato un “buycotting” nelle contee repubblicane con l’hashtag #BuyGoya, attirando nuovi clienti che avevano più che compensato le perdite.

Inoltre, alcune aziende investono in marketing di stampo ecologista e in Responsabilità sociale d’impresa (Rsi) per essere percepite come eco-compatibili e socialmente impegnate, senza però compiere azioni concrete. Ad esempio, nel contesto dell'ecologia si parla di greenwashing. L’agenzia di marketing TerraChoice ha riferito da uno studio del 2006 che il 95 per cento dei prodotti che dichiarano di aver compiuto almeno un “peccato di greenwashing” in Canada e negli Stati Uniti lo hanno fatto sulla base di azioni con impatti irrilevanti o utilizzando etichette false.

Comportamenti analoghi in altri contesti hanno dato vita a fenomeni come il “rainbow washing”, che riguarda i diritti della comunità LGBTQAI+. In un articolo del Guardian del 2021, emerge che alcune aziende sponsor del Pride, come Amazon, hanno contemporaneamente sostenuto con milioni di dollari di donazioni politici contrari ai diritti dei gay negli Usa.

Un’ultima questione, e non per importanza, riguarda poi noi consumatori: in una società come quella di oggi in cui l’immagine, soprattutto online, diventa il nostro primo biglietto da visita, rischiamo di accontentarci di un hashtag come #BoycottShein o di pubblicare un selfie su Instagram con la nuova maglietta arcobaleno. Può allora il consumismo etico avere un impatto concreto, quando diventa più una moda che una forma di attivismo politico?

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