La svolta giuridica aperta dalla Corte costituzionale nel 2024 e le successive linee guida del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) hanno sancito il diritto all’affettività delle persone detenute: colloqui intimi senza controllo visivo diretto, da svolgere in locali appositamente individuati e con regole definite.

Ma, tra norme e pratica esigibilità dei diritti, la distanza rimane ampia. Il risultato è un’attuazione ancora troppo minoritaria e frammentaria: in alcune carceri — tra cui Terni e Parma — si sono già tenuti colloqui autorizzati e sono stati individuati locali e, pochi giorni fa, è partita anche una sperimentazione al carcere Due Palazzi di Padova. Tutto il resto delle strutture detentive, come Domani aveva raccontato, si stanno ancora organizzando.

Ornella Favero, direttrice della rivista sul carcere Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale di volontariato giustizia, ricorda che a Padova «solo grazie al reclamo presentato da un detenuto sostenuto dalla nostra redazione e all’intervento di una giudice di sorveglianza che ha imposto al carcere di adeguarsi entro 60 giorni, si è finalmente arrivati a predisporre gli spazi».

Una strada lunga

Ma, oltre alla città di Padova, c’è il resto degli istituti di pena: quando si parla di diritti delle persone in carcere, in Italia si va avanti a spinta, a suon di reclami e rivendicazioni pubbliche da parte di chi si occupa di diritti di persone detenute. Favero crede che, sul tema, ci sarà un'accelerazione: «Non c’è scelta, di fronte alla violazione di un diritto non possono tirarsi indietro. Un po’ alla volta si adegueranno, anche se i tempi in questo paese sono sempre lunghi; ma non voglio essere pessimista». I detenuti, ricorda Favero, «hanno ragione quando dicono: “Quando c’è qualcosa che diminuisce un nostro diritto, lo applicano molto più velocemente”».

Proprio sul tema delle applicazioni dei diritti delle persone detenute Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione degli adulti osserva che il processo per arrivare a questo diritto è stato «lungo, faticoso e doloroso. Di questo tema si parla da decenni, in Europa siamo uno dei pochi paesi che non ha spazi e regole per garantirlo» e, di proposte di legge in merito, ne sono state ignorate molte. Inoltre la velocità di adeguamento del carcere «alle iniziative legate ai diritti delle persone detenute, con aperture e garanzie di diritti, è sempre estremamente lenta».

Infine c’è il tema della polizia penitenziaria che, come ricorda Scandurra, «storicamente ha vissuto con grande resistenza questa possibilità».

La storia di Attilio

Le persone che hanno subito e subiscono una detenzione, invece, rivendicano con forza i loro diritti. Attilio (nome di fantasia), è uno dei fondatori della rivista Ristretti Orizzonti di Padova. Ha passato trent’anni in carcere e ci è entrato quando aveva 18 anni: «Avevo delle fidanzatine ma i rapporti sono durati poco a causa della lunghezza della pena».

In carcere, allora, non c’era la possibilità di avere questo tipo di spazi, anche se Attilio con Ristretti Orizzonti aveva già cominciato a portare avanti questa battaglia: «All’inizio nemmeno pensavamo di portare le nostre compagne all’interno del carcere, ma le donne erano più mature di noi e volevano entrare». Sentiva, come i suoi compagni, la mancanza di un posto in cui avere «un po’ di intimità, non solo per fare sesso ma per cuocerci una pasta, per stare insieme».

Quando Attilio ha iniziato la battaglia per il diritto all’affettività cercava un posto per stare con la sua famiglia, «senza la guardia che ti alitava sul collo mentre c’erano i colloqui: se davo un bacio di troppo alla mia compagna venivo stoppato, battevano sul vetro con le chiavi. Questo rovinava i pochi momenti di affetto».

Per Attilio il diritto all’affettività aveva molte sfaccettature, non solo quella strettamente sessuale, anche se questi ultimi «sono bisogni naturali, avere la possibilità di fare l’amore per restare una persona sana è importantissimo».

Donne detenute

Anche nelle carceri femminili il diritto all’affettività e alla sessualità è molto sentito, come ricorda Giulia Ribaudo dell’Associazione culturale Closer di Venezia, che promuovere attività culturali in ambito carcerario: «L’introduzione delle stanze per gli incontri intimi negli istituti femminili costituirebbe un riconoscimento indispensabile della dimensione affettiva come parte integrante dei percorsi di reinserimento e di crescita personale».

Anche le donne detenute, infatti, hanno bisogno «di desiderare, di sentirsi desiderate, di costruire relazioni che non si esauriscano nei ruoli di cura o maternità». C’è poi il tema legato alla rieducazione, come obiettivo dichiarato della pena: «Ammettere che possa passare anche attraverso la possibilità di riscoprire un’intimità propria significa restituire complessità all’identità femminile e umanità ai corpi. È un passo che contribuirebbe a rompere lo stereotipo della “madre pentita” e, soprattutto, a scardinare l’idea che la pena debba necessariamente implicare la negazione del desiderio».

La posta in gioco è importantissima: non si tratta solo di regolamentare incontri, ma di tradurre un diritto costituzionale in prassi uniforme, senza che la sua effettività sia lasciata alla discrezionalità delle direzioni carcerarie o all'aleatorietà delle ordinanze giudiziarie; perché la pena non significhi più sospensione degli affetti.

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