Dall’incontro con Renato Curcio e Margherita Cagol nel 1970 al ruolo di primissimo piano fino all’arresto. Poi le teorie complottiste sul sequestro Moro, la dissociazione dal terrorismo e la scarcerazione. Dopo la quale è diventato testimone richiestissimo di chi voleva alimentare il sospetto su un partito armato strumentalmente utilizzato da altri per fini inconfessabili
Alla morte di chiunque, sopravvive la sua biografia. Che è fatta di opere, oltre che di pensiero. La biografia di Alberto Franceschini, scomparso nei giorni scorsi a 78 anni (era da tempo affetto da demenza senile), opere e pensiero li restituisce per intero, inestricabilmente legati, componendo una vicenda politica del secolo scorso tutto sommato lineare nel suo svolgersi iniziale. Per poi, come vedremo, complicarsi inesorabilmente.
Dunque Reggio Emilia, la tradizione partigiana, la “Resistenza tradita”, il rito del passaggio del testimone (cioè delle armi). E la rottura con il Pci. Quindi, passando per il “gruppo dell’appartamento”, il trasferimento a Milano e la conoscenza con Renato Curcio e Margherita Cagol, provenienti dalla contestazione studentesca di Trento.
Siamo nel 1970, le bombe neofasciste hanno fatto i primi morti proprio a Milano, in piazza Fontana. E le Brigate rosse sono già nate, alla fine dell’estate, dopo una sorta di convegno informale a Pecorile, sull’Appennino reggiano.
La stella a cinque punte
La prima azione brigatista è firmata proprio da Franceschini, 23enne, assieme a Cagol: l’incendio a Milano il 17 settembre di quel 1970 dell’automobile dell’ingegner Giuseppe Leoni, capo del personale della Sit-Siemens.
Altre analoghe ne seguiranno, a segnare anche l’iconografia del decennio: come la sua pistola Browning (ricevuta “in dote” proprio da un ex partigiano) puntata in faccia a Idalgo Macchiarini, pure lui dirigente Sit-Siemens, nel primo sequestro lampo di carattere politico della storia repubblicana. E uno slogan, fotografato sotto al simbolo della stella a cinque punte, che diverrà famoso: «Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine 1 per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato!».
Quello slogan stava sotto a un simbolo: la stella a cinque punte. Se non evocasse una dolorosa scia di sangue, oggi si potrebbe parlare di un logo di successo. A partire dal sequestro del magistrato genovese Mario Sossi, il 18 aprile 1974 e per 35 giorni, quel simbolo entrò di prepotenza nella cronaca nazionale.
Con Franceschini a rivestire ancora una volta un ruolo di primissimo piano, quale responsabile militare dell’operazione. Anche rischiando di uccidere Cagol, alla guida di un’auto scambiata per un mezzo dei carabinieri. Un sequestro che si concluse con la liberazione dell’ostaggio, a fronte della promessa (disposta ma non mantenuta) di liberazione di detenuti brigatisti.
La sua seconda vita
L’arresto di Franceschini pochi mesi dopo a Pinerolo, assieme a Curcio, decreterà per certi versi l’inizio della seconda vita di Franceschini. E qui entra in ballo un altro nome importante della storia brigatista, Mario Moretti, accusato in sostanza dallo stesso Franceschini di non averli avvisati (pur essendone venuto al corrente per vie traverse) di una possibile imboscata dei carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che avevano usato l’esca di “frate Mitra”, alias Silvano Girotto, singolare figura di missionario e guerrigliero in Sudamerica infiltrato dell’Arma nelle Br.
Senza dimenticare che quel giorno a Pinerolo Franceschini neppure avrebbe dovuto esserci, qui entriamo nel cuore dell’infinita dietrologia sulle Br, che vorrebbe anche Moretti quale infiltrato (da chi o per conto di chi, basta scegliere a seconda delle proprie inclinazioni) per prima spodestare la dirigenza brigatista e poi condurre e portare a termine l’operazione Via Fani.
Franceschini negli anni, e sono tanti, non ha mai smesso di portare acqua al mulino delle tante teorie complottiste sul sequestro Moro – avvenuto quando era in carcere già da quattro anni – attraverso numerose interviste e anche con propri libri, a partire dal primo “Mara Renato e io”.
Pubblicato nel 1988, è un’autobiografia sincera ma non priva di reticenze: ad esempio, tace del tutto il proprio ruolo nell’efferata “caccia all’infame” (cioè i brigatisti che avevano parlato, per lo più perché sottoposti a torture) nelle carceri, dove amava farsi chiamare “Mega”. E dove il risentimento verso i compagni liberi che non riuscivano a farlo evadere crebbe via via esponenzialmente.
La dissociazione
È un libro in cui, è vero, Franceschini non nasconde la propria adesione alle tesi del partito guerriglia di Giovanni Senzani. Ma che non fa il nome di Roberto Peci, il fratello (non brigatista) del super pentito Patrizio: la sua esecuzione mafiosa da parte di Senzani e compagni venne addirittura filmata, con tanto di musichetta.
Quel libro si conclude invece con una paginetta che riporta la dichiarazione sottoscritta da Franceschini il 21 febbraio 1987 nel carcere romano di Rebibbia, con cui affermava la propria dissociazione dal terrorismo «ai sensi della Legge recentemente approvata», chiedendone l’applicazione anche per sé.
E lì per l’ex leader brigatista aveva preso il via una terza vita, segnata però già nel novembre 1982 da una rottura interiore con il partito guerriglia, dopo l’uccisione (a giudizio di Franceschini insensata) di due guardie giurate a Torino.
È di allora, sempre stando a “Mara Renato e io”, la sua rottura con Curcio, nel carcere di Palmi, il trasferimento a Nuoro e un durissimo sciopero della fame contro le condizioni carcerarie. Ma sono dettagli, a fronte degli anni successivi, con la semilibertà concessa già nel 1988 e la definitiva scarcerazione nel novembre del 1992.
Da allora Franceschini è sempre stato testimone richiestissimo, e sempre disponibile, per la nutrita schiera di giornalisti a caccia di combustibile con cui tenere viva la fiamma del sospetto su un partito armato eterodiretto, o comunque strumentalmente utilizzato da altri per fini inconfessabili.
«Arlecchino dai mille servigi», lo definì Barbara Balzerani, brigatista storica pure lei scomparsa un anno fa. Veleni d’altri tempi. Ma la morte di Franceschini, c’è da scommetterci, alle dietrologie non porrà la parola fine.
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